DANTE IL CAVALIERE CHE SOPRAVVISSE ALLA MATTANZA DI CAMPALDINO


L'autore bestseller anticipa a Repubblica il tema del suo nuovo romanzo storico che indaga un aspetto inedito del Poeta protagonista della battaglia tra guelfi e ghibellini. Un episodio cruento che segnò la vita del fiorentino e si riversò nella Commedia.

Matteo Strukul su Repubblica.it

 

Affrontare la figura di Dante Alighieri in una prospettiva letteraria inedita è impresa complessa, data la grandezza del personaggio, ma è anche un’ottima idea perché può avvicinare il Sommo Poeta ai lettori più giovani, specie se si dedica attenzione al Dante ardimentoso di Campaldino, poco affrontato nei saggi e ancor meno nei romanzi. Per farlo è necessario riconoscere la dimensione avventurosa del più grande poeta-guerriero della Storia.

L’affermazione non suoni peregrina: Dante era cavaliere, abile nell’uso della spada e dello scudo. Dalle letture della Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi di Dino Compagni e della Nuova Cronica di Giovanni Villani emerge prepotente tutta la selvaggia crudeltà del medioevo fiorentino, sbranato dalle faide fra guelfi e ghibellini, dalla contrapposizione fra Firenze e Arezzo, dal conflitto insanabile fra papato e impero. Perciò Dante non poteva, neppure volendo, sottrarsi a quel mondo. Al centro di tutto ciò, sta la battaglia di Campaldino, autentica resa dei conti fra le due fazioni: i guelfi di Corso Donati che godevano dell’appoggio del re di Francia, Carlo II d’Angiò, da una parte; i ghibellini di Buonconte da Montefeltro e monsignor Guglielmo degli Ubertini dall’altra, partigiani dell’imperatore e re dei Romani, Rodolfo d’Asburgo.

Questa importante battaglia medievale ebbe una parte fondamentale nella vita di Dante, lui feditore di prima linea, come tale chiamato a rintuzzare l’impatto del primo assalto delle schiere ghibelline. Non solo. Secondo autorevoli dantisti – valga per tutti il nome del mai abbastanza celebrato Marco Santagata – il giovane Alighieri partecipò all’intera campagna militare che oppose Firenze ad Arezzo negli anni compresi fra il 1287 e il 1290. Riesce allora difficile pensare che i fatti sanguinosi cui assistette non abbiano fortemente influenzato la visione dantesca dalla quale originò la Commedia. Si pensi al dodicesimo canto dell’Inferno, dove Dante incontra le anime dei violenti, immerse fino agli occhi nel sangue bollente del Flegetonte, bersagliate dalle frecce di Chirone e degli altri centauri: è del tutto probabile che una tale pena replichi la visione dei ghibellini accerchiati dai guelfi sul campo di battaglia e sterminati dai balestrieri in un mare di sangue come in effetti avvenne quel giorno sulla piana nei pressi di Poppi.

E che dire della fuga dal campo di Buonconte da Montefeltro che, ormai sconfitto, si ritrovò a morire dissanguato, perché forato nella gola, nel punto in cui l’Archiano si gettava nell’Arno? Dante la racconta nel quinto canto del Purgatorio.

Questi sono solo alcuni degli esempi possibili, naturalmente, ma è assai verosimile che Dante sia rimasto sconvolto dalle cataste di morti sul campo di battaglia, che abbia lottato per la propria vita e che le visioni terrificanti di quel giorno abbiano contribuito in modo determinante a plasmare il suo immaginario. E allora, da reduce quale era, sopravvissuto agli orrori della guerra, Dante si trovò ad affrontare gli incubi come conseguenza shock di un conflitto sanguinario. E forse comporre la Commedia, molti anni dopo, assunse finanche una dimensione catartica, un modo per convivere con l’orrore provato e che mai dovette abbandonare davvero il suo cuore di guerriero.

Senza contare che è proprio ai fatti che precedono e conducono alla battaglia di Campaldino che dobbiamo i vividi ritratti di alcuni dei personaggi più emblematici della Divina Commedia. Fu la vittoria di Buonconte da Montefeltro nei pressi di Pieve al Toppo, nel 1288, a rappresentare l’antecedente per un conflitto definitivo. Quest’ultimo annichilì le truppe senesi di Ranuccio Farnese, alleate di Firenze, mentre le stesse si ritiravano dopo aver assediato Arezzo. In seguito a questo prima vittoria, i ghibellini si impossessarono di Pisa, eliminando Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico. A farlo ci pensò l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini che affidò la guida della città a Guido da Montefeltro, padre di Buonconte. Firenze rischiava dunque di rimanere stritolata nella morsa ghibellina, fra Pisa e Arezzo.

Per questa ragione Corso Donati, capo dei guelfi, volle a tutti i costi una battaglia campale in cui sconfiggere i ghibellini una volta per tutte. Ci provò prima a Laterina ma in quell’occasione i due schieramenti avversari si limitarono a guardarsi in cagnesco dalle due rive dell’Arno. In seguito, quando le imboscate e la tattica mordi e fuggi di Buonconte bersagliarono per quasi un anno i paesi e i villaggi attorno a Firenze, Corso attese l’arrivo di Carlo II d’Angiò e, ottenuto l’appoggio di cento cavalieri francesi sotto il comando di Alberico di Narbona, si preparò a muovere guerra contro i ghibellini.

Dante apparteneva a una famiglia della piccola nobiltà e venne chiamato fra le venticinquine a cavallo, facenti capo a Vieri de’ Cerchi, il quale aveva finanziato buona parte del suo equipaggiamento ed era il magnate di riferimento nel sestiere di Porta San Pietro.

Insomma, non vi è chi non veda come Campaldino divenga chiave privilegiata per raccontare la Firenze dantesca. Il giovane Alighieri era un reduce, un cavaliere di prima linea ferito nell’animo e nel corpo, tornato alla propria casa con gli incubi di chi ha affrontato l’indicibile e deve tentare di superarlo e quel dolore viene vieppiù acuito dalla morte della donna amata – Beatrice Portinari – che mancò di lì a un anno. E come superò, Dante, tutto questo? Trovò in Gemma, sua moglie, nipote di Corso Donati, un appoggio? Come poteva essere la sua vita quotidiana nella Firenze che di lì a poco si sarebbe ritrovata alla mercé di una nuova faida, questa volta fra guelfi bianchi e neri che vedevano proprio nella sua famiglia i capi delle due parti, se è vero che Corso Donati era nero e Vieri de’ Cerchi bianco?

Ebbene, ritengo che un modo per avvicinare i lettori, specie i più giovani ma non solo, all’opera del Sommo Poeta, sia esplorare, per quanto possibile, il suo agire terreno, la sua dimensione più umana, di poeta innamorato dell’amore eppure costretto a sporcarsi le mani nel conflitto e nella battaglia, vivendo in prima persona le sciagure delle umane genti poi raccontate nelle tre cantiche che compongono la Divina Commedia. Per questo non può esistere Dante senza Campaldino e nemmeno Campaldino senza Dante.

 


01/05/2021

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