L'UOMO CHE SCELSE L'INFERNO - L'INTERVISTA A JACK FAIRWEATHER


Un ufficiale polacco si fece internare ad Auschwitz per denunciarne gli orrori
Jack Fairweather ha scritto la sua biografia

La Repubblica
Intervsita di Enrico Franceschini


Ci sono storie vere così incredibili da sembrare inventate. Come quella narrata in Volontario ad Auschwitz di Jack Fairweather, pluripremiato corrispondente di guerra inglese: incredibile per il coraggio del protagonista, l'orrore a cui si sottopone, il tragico destino di sfuggire ai piani diabolici di un dittatore per cadere vittima dei piani di un altro. Quando i nazisti invadono la Polonia all'inizio della Seconda guerra mondiale, l'ufficiale di cavalleria Witold Pilecki entra nella resistenza e poi accetta una missione impossibile: farsi catturare deliberatamente dalle SS per venire rinchiuso ad Auschwitz, con l'obiettivo di fare sapere al mondo cosa succede lì dentro. Ben presto capisce che non è un normale campo di prigionia, bensì uno dei centri per la Soluzione Finale di Hitler: lo sterminio degli ebrei. Dopo tre anni di detenzione riesce ad evadere e fa pervenire il suo rapporto a Londra: ma gli Alleati non gli credono. Allora si congiunge con le truppe polacche che combattono contro i tedeschi in Italia, quindi torna a Varsavia, dove inizia una nuova resistenza: stavolta contro la sovietizzazione di Stalin. Arrestato e condannato a morte dal nuovo regime in un processo farsa, nel 1947 viene ucciso con un colpo di rivoltella alla nuca. Il corpo viene fatto sparire e la sua vicenda censurata. Soltanto nel 1989, dopo il crollo del comunismo in Europa orientale, ottiene una riabilitazione postuma. Nel 2019 una risoluzione del parlamento europeo decide di celebrarne la memoria. E ora arriva questo libro, che in Inghilterra ha vinto il prestigioso Costa Award, è in corso di traduzione in venti paesi (in Italia lo pubblica Newton Compton ) e in procinto di diventare un film: una biografia che si legge come un thriller, con echi di Joseph Roth e Primo Levi.


Lei scrive nell'introduzione che Pilecki è "un uomo come tanti". Parafrasando il saggio di Hannah Arendt sul criminale nazista Adolf Eichmann, la sua storia illustra la banalità del bene? «Illustra l'idea che un uomo ordinario, in determinate circostanze, può diventare un faro di speranza anche nel luogo più tenebroso. È l'altra faccia della banalità del male di cui scrive Arendt. Infonde fiducia nel genere umano: tra noi ci sono mostri di malvagità, ma pure chi ha il coraggio di fare del bene nelle situazioni più estreme».


Come ha raccolto il materiale per ricostruirne la vita, in particolare ad Auschwitz? «Sono riuscito a rintracciare persone che lo avevano conosciuto. Ho ripercorso il suo cammino, trovandomi per esempio nell'appartamento di Varsavia in cui fu arrestato dalla Gestapo, oggi abitato da studenti ignari che una storia così cupa fosse passata da quelle stanze. E mi sono avvalso delle 3 mila testimonianze su di lui del Museo di Auschwitz».

Qual è il primo shock di Pilecki nel lager? «Aveva qualche idea su cosa fosse Auschwitz, ma fin dal primo momento la realtà va oltre ogni immaginazione. Dieci uomini scesi con lui dai vagoni piombati vengono fucilati all'istante. Tutti, lui compreso, vengono brutalmente picchiati. Poi lo rasano a zero, gli danno un numero invece di un nome. Ha l'impressione di essere entrato in un'altra dimensione. All'inferno».

 
In che modo si rende conto che il vero scopo del campo è la Soluzione Finale? «Poco per volta, perché entra ad Auschwitz quando il piano è appena all'inizio. Assiste a tutte le tappe: gli ebrei separati dagli altri prigionieri, i prigionieri malati o deboli che spariscono, infine le camere a gas».


Come sopravvive? «Nello stesso modo descritto da altre testimonianze di scampati: con un elemento di fortuna. Nei primi giorni lo mettono a fare un lavoro pesante all'aperto e pensa di essere vicino alla morte. Poi passa un kapò e chiede: chi sa riparare le stufe? Pilecki alza la mano. Non è vero, ma così finisce a lavorare al chiuso, in condizioni migliori, salvandosi la vita». La fortuna lo aiuta anche a evadere, ma le sue rivelazioni non provocano la reazione sperata. «Morirà senza sapere se i suoi rapporti sono giunti a destinazione. Li ho trovati per la prima volta io, negli archivi di Londra. Erano stati letti e valutati, ma gli Alleati ritennero che distruggere il campo con un bombardamento sarebbe stato rischioso. E forse non credettero alla sua descrizione».


Bombardare il campo avrebbe significato uccidere anche i prigionieri. «Pilecki riteneva che fosse imperativo fermare la macchina della morte organizzata dai nazisti, anche a prezzo del sacrifìcio dei prigionieri. Aveva visto i suoi compagni scomparire nelle camere a gas, ma ne arrivavano sempre di nuovi».


Evade prima che ad Auschwitz arrivi Primo Levi. Nella sua vicenda c'è qualcosa di simile a quello che Levi scrive in "Se questo è un uomo"? «Le loro esperienze furono diverse. Ma hanno anche aspetti comuni. Come Levi, Pilecki inizialmente stenta a capire la mostruosità del progetto di Auschwitz. Come Levi, una volta uscito dal campo, prova un senso di rammarico, quasi di vergogna a essere sopravvissuto».


Morirà in un altro tipo di inferno, nella Polonia sotto il giogo di Stalin. «L'Unione Sovietica non aveva verso la Polonia lo stesso obiettivo dei nazisti verso gli ebrei. Ma anche lo stalinismo ha condotto a campi di concentramento e allo sterminio di milioni di persone. Ad Auschwitz come nella prigione di Varsavia in cui è condannato a morte, Pilecki incontra la stessa determinazione a schiacciare lo spirito umano. E quando i suoi aguzzini comunisti, dopo averlo torturato, gli intimano di pentirsi, risponde che rifarebbe tutto quello che ha fatto. Tenere accesa la fiammella della dignità umana: questo rappresenta la sua storia».


24/09/2020

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