PAVESE, TRA CITTÀ E CAMPAGNA L'IMPOSSIBILE RITORNO ALL'IMMORTALITÀ DELL'ADOLESCENZA


NUOVE EDIZIONI DELLO SCRITTORE, DA QUEST'ANNO FUORI DIRITTI

PAOLO DI PAOLO SU LA STAMPA


Bisognerebbe provare a entrare nei suoi libri dimenticando, o fingendo di dimenticare, il finale di partita. La "cappa di piombo" che si è addensata, dopo il suicidio, sulla sua figura. Riavvolgere il nastro dall'inizio senza subire l'ombra del gesto conclusivo. E ritrovare la sua infanzia sofferta, da orfano di padre; l'adolescenza consumata in fretta – Cesare Pavese, il ragazzo langarolo approdato a Torino, che studia, studia, studia. A 17 anni è certo di avere posto l'ideale della sua vita nella poesia e – quasi dovesse già fare un bilancio – sente che "l'unico appoggio che mi resta al mondo è la speranza che io valga, o varrò, qualcosa colla penna".
Si tratta di una vocazione inflessibile, assorbe interamente gli anni della giovinezza – non fosse che per qualcuno degli amori difficili di cui sarà costellata la sua vita. Legge gli americani, si laurea su Walt Whitman, traduce Moby Dick per mille lire, scopre Lee Masters e l'Antologia di Spoon River. Intanto scrive: versi che raccontano il paesaggio dell'infanzia – la "collina", le colline, centrali nella sua opera come nel suo orizzonte visivo. Sembrano detti a voce, sussurrati, sono canzoni di strada, senza musica. Racconti in cui si va a capo. Storie di gente nata in campagna, come lui, e approdata in città, stordita da troppe promesse. [...]
Nelle pagine forse più belle che siano state scritte su Pavese, Natalia Ginzburg (Ritratto d'un amico) scrive: "Il nostro amico viveva nella città come un adolescente: e fino all'ultimo visse così". Racconta che era, qualche volta, molto triste: "Ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito di quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo. Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare; sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola; non rispondeva a nessuna delle nostre domande". Conclude così: "Gli restava dunque, da conquistare, la realtà quotidiana". [...]

I personaggi di Pavese non fanno che ripetere, ciascuno a suo modo, un percorso di iniziazione alla vita adulta, "un'educazione e una scoperta", fra un paesaggio e l'altro, o piantati a metà strada, nell'impossibilità di scegliere, di decidersi. C'è sempre un'incertezza, un'esitazione: anche di fronte agli impegni più radicali, o alla pressione degli eventi storici, come accade in romanzi come Il compagno o La casa in collina. C'è sempre l'idea che diventare adulti richieda un pedaggio emotivo doloroso, una profonda delusione. Si può tornare indietro? La risposta sembrano darla in coro le voci "mitiche" radunate nei Dialoghi con Leucò (1947). Ed è negativa:


Achille: "Lo sapranno i ragazzi che crescono adesso, che cosa li attende?". Patroclo: "Non ci si pensa, da ragazzi". Achille: "Ci sono giorni che dovranno ancora nascere e noi non vedremo". Patroclo: "Non ne abbiamo già veduti molti?". Achille: "No, Patroclo, non molti. Verrà il giorno che saremo cadaveri. Che avremo tappata la bocca con un pugno di terra. E nemmeno sapremo quel che abbiamo veduto". Patroclo: "Non serve pensarci". Achille: "Non si può non pensarci. Da ragazzi si è come immortali, si guarda e si ride. Non si sa quello che costa. Non si sa la fatica e il rimpianto. Si combatte per gioco e ci si butta a terra morti. Poi si ride e si torna a giocare".


Forse per questo si coglie sempre un particolare struggimento nell'uso che Pavese fa, nei suoi romanzi, del tempo imperfetto. Perfino negli incipit, fra i più belli che la letteratura italiana del Novecento abbia prodotto: "Eravamo molto giovani. Credo che in quell'anno non dormissi mai" (Il diavolo sulle colline); "Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra" (Il compagno); "Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere" (La casa in collina); "A quei tempi era sempre festa" (La bella estate). È l'imperfetto di chi sente di avere perso qualcosa di prezioso: dietro di sé, nell'infanzia (quando "la fantasia ci giunse come realtà"), nella vita da ragazzi; e davanti a sé, in un presente-futuro senza lusinghe, in cui resterebbe da conquistare, la realtà quotidiana; "ma", come scriveva Natalia Ginzburg, "questa era proibita e imprendibile per lui che ne aveva, insieme, sete e ribrezzo; e così non poteva che guardarla come da sconfinate lontananze". -
 

Dal 1° gennaio 2021

Morto nel '50, da quest'anno Cesare Pavese è fuori diritti. Tra i primi editori a inserirlo nel proprio catalogo è Newton Compton , che manda domani in libreria La luna e i falò e La casa in collina (entrambi pp. 192, € 5,90) e I capolavori (pp. 864, € 12,90). I tre volumi sono arricchiti da una prefazione di Paolo Di Paolo, di cui anticipiamo uno stralcio.


06/01/2021

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