CHE KOLOSSAL QUANDO LE SPIE SPIANO LE SPIE


Con duecento milioni di dollari di budget The Gray Man è il film più costoso di Netflix. Lo firmano i Fratelli Russo, registi dei record con Avengers: Endgame

Alberto Piccinini su Il Venerdì

 

Nelle mani di Joe Russo e di suo fratello Anthony, cinquantenni registi e sceneggiatori italoamericani nati in Ohio, Netflix ha messo il suo budget più sostanzioso di sempre: 200 milioni di dollari. In The Gray Man, spy thriller internazionale tratto dal bestseller omonimo di Mark Greaney, pubblicato in Italia da Newton Compton, in cinema selezionati dal 13 luglio e su Netflix dal 22 luglio, Ryan Gosling è la spia buona, Chris Evans quella cattiva, nemici nonostante la comune appartenenza alla Cia. Coreografie da video gioco picchiaduro in mezzo mondo nascondono l'intento dichiarato di costruire un nuovo universo bondiano. I Russo sono abituati a muoversi nel mondo dello storytelling globale, tra le nuove mitologie per piattaforme, lontano dai riti del cinema d'autore. Parlano le cifre. Il loro Avengers: Endgame, con i suoi 2,79 miliardi di dollari, contende ad Avatar il maggior incasso della storia del cinema (2,84miliardi di dollari). Sono anche produttori con la loro società Agbo-di Extraction, thriller di ambientazione indiana-thai-australiana uscito su Netflix dove ha il record di spettatori (99 milioni, e un seguito in arrivo). La storia non sarebbe completa senza ricordare gli inizi. Parteciparono da totali dilettanti allo Slamdance nel 1997 con una commediola criminale ispirata a Robert Rodriguez: Pieces. Budget 30.000 dollari. Alla proiezione, dove avevano convocato una claque di cinquanta parenti, incontrarono Steven Soderbergh, altro mito del cinema indie di allora. Con Soderbergh e George Clooney trasformarono in realtà un sogno cinefilo: il remake de I soliti ignoti di Mario Monicelli. «L'avevamo scoperto quando non eravamo ancora registi», ricorda con un sorriso Anthony Russo. «Si era visto pochissimo in America, difficile anche trovarlo nei videostore. Non lo conosceva quasi nessuno, un vero peccato». Welcome to Collinwood, nuovo titolo, non fu una produzione da poco. George Clooney nei panni di Totò, seduto su una sedia a rotelle, mostrava alla banda come usare la sega circolare. Mentre sistemiamo il collegamento Zoom per l'intervista metto fuori il pc dalla finestra per mostrare a Anthony Russo, che è a Los Angeles, il terrazzo originale della scena della cassaforte, lontano nel tramonto di un quartiere popolare romano. Qualcosa indovina Promette che verrà a fargli visita, appena passerà dall'Italia.

 

Nel vostro film le spie dalla Cia si rincorrono in mezzo mondo senza esclusione di colpi. Ci sono scene catastrofiche, combattimenti infiniti. James Bond è nato durante la guerra fredda, forse esorcizzava il terrore dell'atomica. Avete la sensazione chela guerra in atto possa cambiare nel pubblico la percezione di questo genere di film spettacolari?


   «Nel nostro lavoro io e Joe siamo sempre attenti ai temi politici e sociali. La guerra è uno di questi. Quello che cerchiamo di fare con il cinema è creare un'esperienza, cioè stare un passo distanti dalla realtà. Penso che la gente possa affrontare idee, emozioni, pensieri in maniera più agevole se viene portata in un mondo di fantasia. Ma capisco bene, e sono d'accordo con quello che dici: la situazione mondiale rende tutto più difficile».

 

La saga di The Gray Man prevede avventure in ogni parte del mondo ma la scelta dell'ambientazione per la maggior parte delle scene d'azione è caduta sull'Europa dell'Est. Vienna, la Croazia, soprattutto Praga.

  «Praga è una location straordinaria per fare film. La Repubblica Ceca è un Paese molto aperto alle esigenze delle produzioni. Hanno grande esperienza, sanno come si fa. Onestamente la scelta di una location dipende dalla certezza che le maestranze sul posto siano in grado di seguire progetti di questa grandezza. L'action movie è difficile, pericoloso. E molto costoso. Da questo dipende quasi tutto».

 

Il buono e il cattivo. Ryan Gosling sopra un corpo scolpito ha un viso ironico, una specie di sorrisetto perenne. Chris Evans è invece un cattivo ossessivo, psicotico, implacabile. Come avete lavorato con loro?

    «Court Gentry, il personaggio del Gray Man, per noi è un'indicazione di quello che il genere spy può diventare. È una specie di spia delle spie, conosce tutti i loro segreti. È stato prelevato da una prigione, inserito in un programma segreto e nascosto al mondo. Ryan è un maestro di minimalismo. È capace di significare una vita interiore molto complessa facendo pochissimo e questa è l'essenza di un "uomo grigio". Si risparmia, non deve sprecare energia, non deve essere notato. Il film è la storia del suo rivelarsi. Chris Evans doveva essere il suo esatto contrario. Nessuno doveva fare più rumore di lui. Il film è costruito su queste due forze opposte».

 

Avete frequentato a lungo il mondo dei supereroi. Come registi quanta importanza date alla realtà dell'azione e quanto agli effetti digitali?     

  «Amiamo la tecnologia, crediamo sia il modo attraverso il quale il pubblico può vivere un'esperienza totalmente nuova. Ma siamo molto attenti a dare alle azioni un senso di fisicità e il miglior modo per farlo è girare realmente. Non vogliamo ovviamente darci limitazioni, la questione è come trovare un equilibrio tra queste due cose: il senso di qualcosa che è inserito nella realtà, e mostrare al pubblico qualcosa che non hanno mai visto prima.»

 

Per che cosa combattono queste spie? E la Cia? Per la libertà? La democrazia? Il Bene? Ve lo siete chiesto?

    «Ce lo siamo chiesti, certo. Intanto il Gray Man combatte perché gli hanno dato questa unica possibilità per uscire di prigione. Non sarebbe entrato nella Cia per nessun altro motivo se non come via d’uscita. Chris Evans combatte per qualcosa che ha dentro, per la sua follia interiore. Il personaggio di Regé-Jean Page, Denny Carmichael, il loro superiore, compatte per un’agenda molto nazionalista e la persegue in maniera nascosta, subdola. Pensa che non puoi vincere se giochi pulito in un mondo senza regole, e che se vuoi proteggere la democrazia a volte devi usare tattiche che non le appartengono.»

 

Uno dei personaggi che sembra infrangere questo equilibrio appare all'improvviso. È interpretato da Dhanush, superstar del cinema Tamil, qui nel ruolo di un supercattivo.

   «Da I soliti ignoti abbiamo imparato il valore dei film corali. Quando scrivi un film con un gruppo di attori non puoi mai prevedere dove si svilupperà la storia. Dhanush ha una grande presenza sullo schermo. Pensiamo al film in termini di universo narrativo e un personaggio come il suo mostra dove la storia può proseguire in futuro».

 

In cosa sono diverse le storie "global" di Netflix dalla maniera in cui Hollywood ha sempre realizzato i kolossal internazionali?

   «Buona domanda. Siamo stati sempre attratti da uno storytelling globale. Siamo cresciuti guardando soprattutto cinema "global", chiamiamolo cosi, da ragazzi. La nostra famiglia è negli Usa da un paio di generazioni appena, noi ci pensiamo ancora come immigrati, dunque essere globali è qualcosa che ci portiamo dentro. Dico francamente: il cinema di Hollywood ci interessava solo fino a un certo punto, noi proviamo a chiederci come raccontare storie che possano essere capite in tutto il mondo perché sono quelle che ci piacciono, che ci sembrano davvero importanti. Il mondo è sempre più connesso e penso sia fondamentale raccontare storie che possano giocare un ruolo in questa connessione tra le persone del pianeta».

 

Che cosa resta della vostra passata vita da registi indipendenti? Non vi manca il cinema d'autore?

   «Io e mio fratello lavoriamo da sempre in coppia, già questo corrisponde poco all'idea di autore. Preferiamo definirci "designer di storie". Ci piace raccontare storie e ci piace farlo in maniera collaborativa, assieme alle tante mani che lavorano in un film».

 


08/07/2022

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