Josef Lewkowicz - L'intervista


Giorno della memoria, il sopravvissuto ai lager Josef Lewkowicz: “Devo ricordare i campi di sterminio perché non si ripeta il Male”

Silvia Truzzi su il Fatto Quotidiano

 

Josef Lewkowicz ha 96 anni, quando ne aveva 16 è stato deportato a Belzec, un piccolo villaggio nell’est della Polonia dove Hitler aveva installato un efficientissimo campo di sterminio, in cui persero la vita 600 mila ebrei: della sua famiglia è sopravvissuto solo lui. Ottant’anni sono il tempo che ha impiegato per trovare il coraggio di tornare nel luogo dove ha perso tutto, tranne la forza di vivere. Intanto ha fatto molte cose: ha rintracciato i piccoli orfani della Shoah, ha aiutato gli alleati a scovare i suoi carnefici, tra cui l’ufficiale delle SS Amon Göth, “il macellaio di Plaszów” che Steven Spielberg ha raccontato in Schindler’s List. Dopo un lungo silenzio, ne Il sopravvissuto di Auschwitz – un libro poetico, pieno di dolore e speranza, in Italia tradotto da Newton Compton – Josef ripercorre la sua lunghissima vita, anche grazie alla penna dello scrittore inglese Michael Calvin.

Josef, lei ha trascorso l’infanzia in uno shtetl della Polonia sudorientale e poi a Cracovia.

Ricordo una meravigliosa vita, idilliaca e tranquilla. Giocavamo, imparavamo, cantavamo. Mangiavamo e celebravamo lo Shabbat. Non eravamo ricchi. Non eravamo poveri. La vita andava bene.

Cosa ricorda del 2 settembre 1942, quando fu arrestato dai nazisti? Cosa ha significato per l’adolescente che era allora?

Il mio mondo è cambiato da un giorno all’altro. L’Olocausto, i campi di concentramento erano un altro pianeta. Essere un adolescente è stato un vantaggio, in un certo senso: ero avventuroso e avevo la vita davanti a me. Ti adatti. Impari a sopravvivere. Ogni giorno devi trovare una crepa, un lampo di luce, un boccone di cibo e andare avanti.

Cosa significa essere un sopravvissuto?

Sono sopravvissuto a molti campi di lavoro e di concentramento. Tutta la mia famiglia è stata uccisa a Belzec, ma io sapevo che dovevo farcela e avevo una motivazione forte: all’inizio è stata salvare i bimbi ebrei dispersi che avevano perso i genitori, uccisi dai nazisti. In un senso più ampio ha significato vivere con uno scopo, la spinta è stata contribuire a costruire un mondo migliore.

Nel libro scrive “Non voglio ricordare, ma devo…”: cosa significa per lei il dovere della memoria?

Innanzitutto bisogna ricordare per assicurarsi che cose come questa non si ripetano. “Dovere” significa raccontare la mia storia a quante più persone posso perché diventino testimoni della mia memoria.

È stata fatta giustizia per la Shoah?

Non c’è punizione che renda giustizia a un male compiuto da uomini che, credendo di essere dèi onnipotenti, hanno deliberatamente e sadicamente disposto della vita e della morte. Amon Göth era così malvagio che nemmeno la peggior tortura avrebbe reso giustizia. Ma noi non siamo Dio.

Scrive che la sua più grande vendetta è la vita.

La più grande vendetta che possiamo avere sul male è sostituirlo dieci volte, cento volte, con il bene. La vera fede, l’amore, la condivisione, supereranno la falsità e l’egoismo. Mia madre diceva sempre “Na Grzecznosci nikt Nie Traci”: significa che quando si è gentili non si può perdere.

Ha paura della recrudescenza antisemita? O l’antisemitismo non è mai scomparso?

La paura è come una sedia a dondolo, pensi di muoverti ma non stai andando da nessuna parte. È molto scoraggiante essere testimoni del male, di un altro Olocausto, e vedere parti del mondo occidentale che non lo chiamano né lo riconoscono per ciò che è. Sembra che l’antisemitismo non sia mai scomparso ed è per questo che gli ebrei e Israele devono difendersi. Ottant’anni fa nessuno lo fece, oggi non abbiamo altra scelta che difenderci.

 

 

 

 


27/01/2024