999 donne tradite dal loro paese: è la storia drammatica delle prime deportate ad Auschwitz


Il 27 gennaio è la Giornata della Memoria, dedicata al ricordo dell’Olocausto. Abbiamo intervistato l’autrice di un libro che porta alla luce alcune storie delle prime vittime

Un libro dettagliato e toccante sulla vicenda di un migliaio di ragazze ebree nubili slovacche, fatte salire sul treno dell’orrore con l’inganno

Di Francesca Solari

Mantenere vivo il ricordo della tragedia dell’Olocausto, che sarà commemorato il 27 gennaio nella Giornata della Memoria, significa anche portare allo scoperto fatti non ancora raccontati. 
Lo ha fatto di recente, con straordinaria precisione investigativa, Heather Dune Macadam, autrice di Le 999 donne di Auschwitz (Newton Compton Editori). In questo libro, dettagliato e toccante, la scrittrice si sofferma sulla storia delle prime deportate nel campo di concentramento nazista più tristemente famoso. Il 25 marzo del 1942, infatti, circa un migliaio di donne ebree nubili furono costrette con l’inganno a lasciare Poprad, in Slovacchia, per salire a bordo di un treno. Molte di loro partirono entusiaste, illudendosi di andare a lavorare – come era stato loro annunciato – in una fabbrica di scarpe. Questa menzogna dà la misura delle cruda modalità con cui il loro Paese le tradì: ed è proprio da qui, ci racconta la scrittrice, che è maturata la decisione di dedicare alla vicenda un libro e un documentario. 

Come è venuta a conoscenza della storia delle giovani ebree deportate ad Auschwitz? «Negli anni Novanta ho scritto il mio primo libro, Rena’s Promise: A story of Sisters in Auschwitz (La Promessa di Rena: storia di due sorelle ad Auschwitz), basato sulle memorie di una sopravvissuta alla prima deportazione ad Auschwitz dalla Slovacchia. Quando ho iniziato ad approfondire la sua vicenda, incontrando storici slovacchi e studiando l’archivio nazionale locale, mi sono resa conto di quanto profondamente il governo di quel Paese abbia tradito gli ebrei. Sono rimasta scioccata dalle menzogne che sono state raccontate alle ragazze deportate in massa, scelte solo perché non c’erano abbastanza giovani adulti per “fare numero”, in linea con gli obiettivi dei nazisti». 

Quanto tempo hanno richiesto il lavoro di documentazione e la stesura del libro? «Sono serviti anni! Ho iniziato a condurre le ricerche nel 2012, per aiutare le famiglie delle deportate a mettere la parola fine alla vicenda. Nel 2017, in occasione del 70° anniversario della partenza del trasporto da Poprad, mi sono recata con alcune famiglie in Slovacchia: durante una commemorazione ho invitato chi avesse avuto un parente deportato a salire sul palco, e in cinque lo hanno fatto. Con me c’erano già persone provenienti da Israele, dall’Australia, dall’America e tutti, all’improvviso, piangevano e si abbracciavano pur non parlando la stessa lingua. Era come se già si conoscessero profondamente, perché le loro madri erano tutte sopravvissute dell’Olocausto: in quel momento ho avvertito la necessità di scrivere il libro e produrre il documentario».

Quali sono stati i momenti più difficili da superare da un punto di vista emotivo? «È stato difficile scrivere di persone che sono morte, come la nipotina di una deportata, Helena Citron (uccisa in una camera a gas, ndr): disponevo di pochissime informazioni concrete su questo fatto, e ho trascorso giorni e giorni a ricreare la scena e a piangere. È stato doloroso anche portare alla luce la storia di una famiglia, gli Hartmann, attraverso lo scambio epistolare con la figlia Magduska, deportata, sapendola destinata alla morte».

Che effetto le ha fatto raccogliere le testimonianze delle donne sopravvissute a questo scempio? «Ascoltare e dare testimonianza di queste storie non è facile, ma è comunque un dono e un onore. Quando intervisto le sopravvissute, lascio che siano i loro sentimenti a parlare: le ascolto, e spero di riuscire ad aiutarle a sopportare il peso che si portano dentro. Per farlo è essenziale concentrami su di loro, senza pensare a me stessa».

Quali sono le caratteristiche che le accomunano? «Sicuramente tutte hanno sofferto di un gravissimo trauma in un momento in cui, in campo psicologico, non si disponeva ancora di strumenti adeguati per trattarlo. “Da fuori possiamo sembrare normali”, mi ha detto Edith (Friedman Grosman, sopravvissuta deportata a soli 17 anni e figura centrale del libro, ndr), “ma non lo siamo”». 

Quali sono state le conseguenze più dolorose che hanno patito? «Molte donne hanno sofferto di malattie per il resto della loro vita. Edith ha patito le conseguenze di una tubercolosi, e ha camminato zoppicando dall’età di 21 anni; tante altre hanno avuto grosse difficoltà nel portare avanti le loro gravidanze».

Nel campo di concentramento alcune ragazze hanno messo in atto vere e proprie strategie di sopravvivenza. Quali erano le più comuni, stando a quanto ha raccolto? «Per molte è stata fondamentale la sorellanza: se una ragazza lavorava negli uffici, nei reparti di cucito, lavanderia o smistamento degli abiti insieme ad altre ragazze aveva maggiori probabilità di sopravvivere. Altrettanto importante era essere ipervigili: un singolo momento di distrazione poteva esporre al pericolo o alla morte. Alcune ragazze, infine, sono state aiutate dal coraggio». 

Quale pensa sia il modo più incisivo per mantenere vivo il ricordo dell’Olocausto e parlarne con le giovani generazioni? «Difficile rispondere a questa domanda. Posso farlo attraverso un messaggio di Edith: “La guerra non serve a nessuno”. Il suo monito spezza il cuore, ma penso che si debba semplicemente ascoltarla».

Fonte: Vero 24/01/2020


24/01/2020