Artemisia Gentileschi. Né prostituta né icona femminista. Metteva nell'arte il suo erotismo.


Bellissima, fece condannare l'uomo che l'aveva stuprata. Ma quadri come Giuditta e Oloferne non sono una vendetta verso il genere maschile bensì il trionfo del potere di seduzione femminile

di Alex Connor
 
Quando ho cominciato a scrivere il romanzo su Artemisia Gentileschi, già da tempo conoscevo la sua storia e ne ero rimasta profondamente affascinata. Dopotutto, non è per questo che ci si dedica alla scrittura di un libro su qualcuno? Alla base ci dev’essere un profondo interesse nei suoi confronti e, nel caso si scriva un romanzo storico, anche un’attenta conoscenza della sua epoca. 
Fin qui, tutto bene. Conoscevo la sua opera, il periodo in cui aveva vissuto, e ammiravo il suo coraggio. Ma ben presto scoprii che Artemisia aveva una certa reputazione. Non sto parlando del fatto che nel XVII secolo era considerata una “prostituta”, cosa della quale soffrì moltissimo, ma di un’altra etichetta, gentile concessione del XXI secolo, ovvero quella di “icona del femminismo”. Be’, io non ho mai creduto che lo fosse, anzi mi ha sempre infastidito che venisse considerata tale. Ecco a voi, quindi, la causa intentata tra la signora Artemisia Gentileschi e l’Icona femminista. 
Dai resoconti dell’epoca sappiamo che Artemisia era una bellissima ragazza. Anche suo padre, Orazio, lo sapeva, e fin troppo bene, tanto che la faceva accompagnare dovunque da una donna di nome Tuzia, che doveva proteggerne l’interesse. Perché Artemisia rappresentava un notevole interesse per suo padre. Se non fosse stata vergine, non avrebbe potuto trovare un buon partito a cui darla in moglie. Ma c’era di più: Artemisia era anche la sua assistente di studio. Aveva dei fratelli, dal talento però piuttosto limitato, al contrario del suo, che invece era davvero notevole. Orazio aveva capito sin da quando la figlia era adolescente che sarebbe diventata una pittrice più brava di lui. Ne era geloso? Molto probabilmente sì. Di certo la bravura di Artemisia aveva fatto ingelosire i fratelli. Tuttavia tanta bravura per il padre significava maggiori profitti e infatti pare si sia attribuito alcune delle opere della figlia. D’altronde, come avrebbe potuto pretendere qualcosa lei, che era solo una ragazza? Sua madre era morta quando aveva appena dodici anni, e dal quel momento in poi Artemisia era cresciuta circondata da uomini, al centro di Roma, nel quartiere degli artisti. Lì era al sicuro da ladri, ubriaconi e prostitute che bazzicavano la zona, e frequentava gli amici del padre, persone brillanti ma anche violente, come per esempio Caravaggio, che la incoraggiò sempre a coltivare il suo talento. 
Purtroppo il malaccorto Orazio invitò Tuzia, di cui abbiamo parlato poco fa, a vivere insieme alla sua famiglia, come governante. Artemisia dovette sentirsi sollevata al pensiero di aver vicino una donna con cui confidarsi, con cui parlare di faccende personali. Divennero intime amiche? Non possiamo esserne sicuri, di certo c’è che Tuzia le fece da chaperon e che le due uscivano insieme. 
Tuttavia, nonostante si preoccupasse tanto di proteggere la figlia, Orazio ebbe la malaugurata idea di chiedere a un suo amico e collega, Agostino Tassi, di fare da tutor ad Artemisia: l’ambizione aveva avuto la meglio sul buonsenso. Tassi, che era un’opportunista, si guadagnò presto l’amicizia di Tuzia, e quest’ultima da chaperon si trasformò in ruffiana. Infatti, fu proprio lei che permise a Tassi di entrare nella stanza da letto di Artemisia per violentarla, fu lei a ignorare le sue grida d’aiuto. Tassi era una persona cattiva e in giro si sapeva: si diceva che avesse ucciso la prima moglie ed era stato accusato di incesto con la sorellastra e di furto. In effetti, è possibile che Orazio se la sia presa di più perché gli aveva sottratto un grande dipinto che ritraeva Giuditta piuttosto che per il fatto che avesse deflorato sua figlia, e che l’abbia denunciato solo per vendetta. 
Quello che Orazio non aveva considerato era le conseguenze che avrebbe avuto la questione. Era la prima volta che una donna, (anzi, una diciassettenne) accusava di stupro un uomo, e Roma tutta, scandalizzata, guardava a bocca aperta questa bellissima ragazza che veniva continuamente condotta a testimoniare. Artemisia accusava Tassi, lui negava. Lei fornì la prova che l’aveva violentata, per poi prometterle di sposarla e renderla così di nuovo una donna rispettabile, unica ragione per la quale lei aveva acconsentito ad andare di nuovo a letto con lui. Quello che però Artemisia non sapeva era che Tassi era già sposato e che durante i lunghi mesi del processo le si sarebbe rivoltato contro, facendola passare per una prostituta, in modo da giustificare la sua colpa. La conseguenza fu che Artemisia venne ostracizzata dal padre e dai fratelli. Ne fu ferita? Non si sa, certo è che venne presa in giro, derisa, sottoposta a spiacevolissimi esami ginecologici, ma rimase salda nel sostenere la sua tesi. “È la verità, è la verità”, continuava a ripetere in tribunale, senza lasciarsi intimidire. 
Alla fine del processo Tassi fu giudicato colpevole e gli venne inflitta una pena, ma siccome era uno dei favoriti del pontefice, venne presto graziato. Ad Artemisia invece finì peggio. Aveva due alternative: entrare in convento e continuare a vivere la propria vita nell’ombra, o ripercorrere le orme di Caravaggio e combattere per il proprio diritto di diventare un’artista famosa. 
Ecco perché la sua storia mi ha molto colpito. Per sfidare le convenzioni, la sua famiglia e il fatto che tutta Italia la considerava una prostituta, si sposò con un misconosciuto artista fiorentino e cominciò a fare di tutto per cercare di emergere nel suo campo. Come ci riuscì? Grazie al talento e a una scaltrezza tutta femminile. Ricordatevi che Artemisia era nata a Roma, nel quartiere degli artisti, e lì aveva visto come venivano trattate le donne. Sapeva che se erano accusate di adulterio, venivano picchiate e che le prostitute venivano invece frustate e gettate nelle galee. Aveva conosciuto delle donne che erano state esiliate per aver commesso adulterio e disonorate dalla chiesa cattolica per aver abortito. Ma conosceva anche delle donne intelligenti che prosperavano, grazie alla loro bellezza e al loro spirito. Di sicuro aveva conosciuto Fillide Melandroni, la musa di Caravaggio, una prostituta bellissima, alcolizzata, abituata alle risse da strada. E si era resa conto che Fillide usava gli uomini per procacciarsi denaro e favori. Ben lungi dal concludere i propri giorni come una sciattona sdentata, infatti, Fillide visse la vecchiaia da gran signora, gestendo un esclusivo bordello. 
Naturalmente Artemisia non sarebbe diventata una cortigiana, ma, come Fillide, capiva gli uomini. E sapeva anche come nutrire i lupi, come gettare scarti ai brutti ceffi ingordi e lascivi da cui era circondata. Penso che sia stato l’istinto a guidarla; si rendeva conto che per sopravvivere nel mondo dell’arte doveva dare ai suoi mecenati qualcosa di unico, per cui faceva in modo di stuzzicare lo spettatore, o meglio lo spettatore maschio, visto che solo gli uomini avevano il potere di commissionare opere d’arte. Erano gli uomini che bisognava compiacere. Con consumata abilità, Artemisia usava la propria fama come un’arma: rappresentava le donne nell’atto di vendicarsi degli uomini che avevano abusato di loro e sapeva che quelle immagini avrebbero stimolato la libido maschile. Dipinti come Giuditta e Oloferne sono di una pungente sensualità: una donna che sopraffà fisicamente un uomo, una donna al cospetto della quale l’uomo è letteralmente inerme. La posizione del missionario al contrario: il sesso soccombe davanti alla violenza e alla morte. 
Artemisia non aveva tempo per la timidezza. Se voleva battere l’artista maschio al suo stesso gioco, doveva usare l’unica cosa in suo possesso che lui non aveva: la sessualità femminile. Se guardate le donne dei suoi dipinti, vi accorgerete che sono potenti; hanno le braccia forti, prendono gli uomini, loro vittime, per i capelli, affondano il coltello nella carne e li dissanguano, un atavico riferimento al defloramento di una vergine e al sangue che si sparge durante il parto. Li sottomettono con la forza, il genio artistico e la prestanza fisica. Persino i costumi che Artemisia sceglie sono importanti. Le sue eroine uccidono nonostante abbiano i seni sodi strizzati in corsetti di seta. Uccidono con indosso gioielli e vestiti eleganti: le braccia che dovrebbero sedurre e abbracciare l’uomo, lo sopraffanno e gli strappano la vita. I suoi quadri hanno una vena di sadomasochismo: il sesso diventa crudele, brutale. Nessun altro pittore ha mai illustrato così chiaramente la linea sottile che separa morte e sesso. Desiderio e distruzione. Passione e impotenza. 
Ma Artemisia non si stava vendicando del suo stupratore tramite l’arte. Piuttosto stava facendo carriera, riscattandosi dall’umiliazione, trasformando la propria impotenza in un irresistibile e sensuale tour de force. Naturalmente i suoi mecenati volevano le sue opere. Avrebbero potuto fingersi sconcertati dal fatto che una donna dipingesse simili scene, invece lei li eccitava, li seduceva, otteneva commissioni e si faceva così strada nella sua professione, con ineguagliabile astuzia. Non dico che assumere un simile atteggiamento fosse facile per lei, ma negare la sua stessa genialità sarebbe stato un sacrificio troppo grande. 
Se fossimo stati nel XXI secolo avremmo applaudito le sue notevoli doti di PR, ma nell’Italia del 1600, Artemisia stava soltanto sfruttando l’unico privilegio che aveva: il fatto di essere una donna. Una pittrice. Una persona eccentrica. La sobrietà da ragazza di buona famiglia di Sofonisba Anguissola non faceva per lei. Fu piuttosto il fatto di essere chiacchierata che la rese famosa. Venne corteggiata da persone influenti e fu rapida ad assimilare i modi cortigiani. Tuttavia non dimenticò mai le sue radici: conosceva la realtà della strada abbastanza da riuscire a fare affari con le sartine. Se loro le avessero cucito dei vestiti senza farglieli pagare, lei li avrebbe indossati quando andava a spasso per Roma, Venezia e Firenze, rendendole a loro volta famose. Aveva l’aspetto dell’amazzone, così come “amazzonica” era la sua personalità. 
Il suo matrimonio fallì ed ecco le femministe tornare alla carica. Artemisia deve odiare gli uomini. Deve disprezzare sia Tassi che suo marito, debole e adultero. No, tutto ciò servirebbe a fare di lei una figurina, una sagoma di cartone che faccia da sponsor al movimento, mentre era una donna reale. Artemisia amò un uomo alla follia, il suo mecenate e consigliere, Francesco Maria Maringhi, che però era già sposato. La loro storia a un certo punto divenne di pubblico dominio e Artemisia fu costretta a partire da Firenze, lasciandosi dietro un altro scandalo. Le lettere che lei e Marighi si scambiarono rivelano una donna dalla passione impetuosa, capace di amare e di provare forti sentimenti. 
Ecco che intervengono di nuovo le femministe. Era Artemisia che portava la pagnotta a casa, era il capofamiglia, in un’epoca in cui era cosa rara per una donna. Rivestiva un ruolo maschile. Quello che però che le femministe in questione non considerano è che non fu lei a sceglierlo. Fu costretta a mantenere la famiglia, perché suo marito, un uomo inetto e infedele, non era in grado. Fu costretta a intraprendere rischiosi viaggi in terre pericolose, per procacciarsi le commissioni. Non perché avesse qualcosa da dimostrare, ma perché doveva proteggere i suoi figli e la sua carriera. Lei stessa raccontava che quando viaggiava in carrozza, nascondeva il figlio più piccolo sotto le gonne, cosicché se fosse stata aggredita, i rapinatori non l’avrebbero trovato. Solo una vera donna, bella tosta, poteva fare una cosa del genere. Artemisia non si affidava agli uomini, perché si affidava solo a sé stessa. 
Le sue lettere a Marighi sono una rivelazione. Parla di sesso, in modo sfacciato, impudente, a volte orgogliosamente esplicito. Sembra che intinga la penna nel calamaio della passione. Passa con un guizzo dalla carnalità al candore. 
[…]
Le sue parole non sono quelle di una femminista arrabbiata, un’arpia che odia gli uomini, ma quelle di una donna capace dell’amore più profondo. Dopo Marighi, tuttavia, non amò più nessuno nello stesso modo. Nella sua vita ci furono altri fuggevoli amanti, ma non un sentimento intenso, sfacciato, divorante come quello. In ogni caso, tutta quella energia, tutta quella sensualità, non sono andate perse, perché Artemisia le ha trasferite nella propria opera. 
Nessuna pittrice ha mai rappresentato meglio di lei il nudo femminile. Certo, lo faceva per compiacere i suoi committenti, ma anche perché si guardava allo specchio e usava se stessa come modello. Utilizzando il proprio corpo, la propria sessualità, non ne aveva timore. La bellezza era il suo coltello affilato, con cui separava i committenti dal loro borsellino. I corpi che dipinge respirano di eccitazione e lussuria. Artemisia ha raggirato i suoi committenti, senza che loro se ne rendessero conto. Pensavano di avere davanti una vittima che cercava vendetta attraverso la pittura, mentre stavano in realtà assistendo al trionfo del potere femminile, attratti e instupiditi dal suo palpabile erotismo. E lei si riempiva le tasche esercitando la propria arte di seduzione, dando al pubblico e ai suoi committenti quello che volevano: violenza e “sensazione”. Un gioco sottile, al quale avrebbe potuto giocare solo una donna molto intelligente. E i lupi accorrevano a nutrirsi. 
Artemisia Gentileschi non è un’icona del femminismo. Etichettarla così equivarrebbe a rinnegare la sua vera natura; quell’incredibile, bramosa passione che lei esprimeva nei suoi quadri e nei confronti degli uomini che amava. Non bisogna minimizzare il suo genio. Né costringerla ad adattarsi ai parametri e ai costumi del nostro mondo. La sua mente e il suo genio trovarono piena espressione nella sua opera, ma il suo corpo era quello di una donna, una donna che non temeva l’amore. Osserviamo meglio Artemisia Gentileschi e i suoi quadri. Come poteva essere una vittima, determinata a vendicarsi degli uomini, quando le protagoniste delle sue opere sono irriducibili, fiere, e sempre bellissime? Questa donna è una femminista per natura. Non ha combattuto in nome dell’uguaglianza, perché ha sempre creduto, sin dall’inizio, di essere uguale agli uomini. 
 
Traduzione di Clara Serretta

Fonte: La Stampa 27/12/2018

 


27/12/2018

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