«Empatia e attenzione per i civili, così Marie Colvin raccontava le guerre»


Il fotoreporter Paul Conroy era con la collega a Homs quando è stata uccisa nel 2012 in un raid di Assad. E ora la ricorda con un libro in cui racconta la sua importante missione al fronte per documentare le sofferenze dei siriani

di Marta Serafini


«Chi è quello che ha costruito la barca?». E’ iniziata così la loro amicizia e la loro collaborazione, con una bottiglia di whisky e una chiacchierata sulle barche. «Marie era così, si sentiva a casa con i londinesi del bel mondo e gli aristocratici britannici come con i signori della guerra curdi, i dittatori nordafricani e i tassisti afghani. O i fotografi di Liverpool».

Sono passati sei anni da quando la reporter del Sunday Times Marie Colvin è stata uccisa in Siria, a Homs, colpita dall’artiglieria di Assad. E ora Paul Conroy, fotoreporter britannico, a pochi giorni dall’uscita in Italia dal film «A private war» e mentre va in libreria il suo «Confesso che sono stata uccisa» (Newton Compton), basato sul documentario «Under the Wire», ricorda la collega. Originario di Liverpool, dopo cinque anni trascorsi nell’esercito britannico come osservatore avanzato, decide di continuare a vivere i conflitti in prima persona, ma con un’altra veste, quella del fotografo. «Vissi nelle grotte a Creta, raccolsi pomodori, ricostruii chiese medievali e girai il mondo insieme a vari gruppi musicali, diventando un profondo conoscitore di qualsiasi sostanza illegale. Ma, ovunque andassi, portavo sempre la telecamera e la macchina fotografica e sviluppai una vera passione per i soggetti che immortalavo», racconta Conroy al Corriere.

E’ il marzo 2003 quando Paul, bloccato insieme ad altri reporter a Qamishlo al confine tra la Siria e l’Iraq, incontra per la prima volta Marie Colvin. «Avevo appena tentato di passare il confine con un gommone insieme ad altri colleghi ma avevamo fallito facendo arrabbiare tutti gli altri reporter rimasti bloccati. Gli altri erano furibondi con me. Marie invece rimase colpita. Ed è così che siamo diventati amici e abbiamo iniziato a lavorare insieme». Conroy e la Colvin coprono insieme la Libia, sono entrambi a Sirte quando Gheddafi viene ucciso. «Marie aveva dedicato alla Libia buona parte della sua vita professionale: aveva incontrato Gheddafi in numerose occasioni e visitato, sotto la supervisione del governo, molte zone del feudo privato del dittatore. Nel 1986, quando era una giovane reporter, era stata invitata a casa sua e aveva persino dato la notizia esclusiva che gli americani intendevano bombardarla pochi giorni prima che succedesse. La sua avvenenza e il suo carisma affascinavano Gheddafi, sempre più pazzo e brutale, ma Marie aveva una sincera passione per la storia libica e non aveva intenzione di perdersi il probabile ultimo capitolo di una vicenda lunga quarantadue anni».

Passa un anno e Paul e Marie si ritrovano. La loro destinazione questa volta è la Siria, dove in quei mesi il regime di Assad sta scatenando tutta la sua furia contro una delle più importanti roccaforti dei ribelli, il quartiere di Baba Amr a Homs. Qui i civili di quella piccola enclave sono intrappolati in un assedio medievale e sono sottoposti a una furia fuoco e raid. Marie e Paul non possono mancare. Il Sunday Times li invia in Siria, senza visto. Che, tradotto, significa entrare illegalmente nel Paese penetrando nella zona sotto il controllo del Free Syrian Army. Marie e Paul sanno bene quali sono i rischi che corrono. Ma decidono di partire spinti dall’idea di dover dare una voce e un volto alle storie dei siriani colpiti dalla guerra. «Per Marie, fare la reporter non significava battere la concorrenza, anche se le piaceva essere la prima ad arrivare e l’ultima ad andarsene. Era soprattutto spinta da una profonda indignazione morale di fronte alle sofferenze dei civili che vengono inevitabilmente coinvolti in tutti i sanguinosi conflitti del pianeta. Alcuni anni prima, in un celebre e appassionato discorso tenuto a Londra a St Bride’s, su Fleet Street, una chiesa tradizionalmente associata ai giornalisti, Marie aveva affermato l’assoluta necessità di inviare i reporter nei luoghi più pericolosi. Era convinta che il giornalismo di guerra fosse un modo di raccontare verità scomode, di costringere i governi a giustificare la loro condotta informando l’opinione pubblica di cosa facevano in loro nome».

Ed è con questo spirito che Conroy e Colvin si infilano nei tunnel per superare le linee di Assad ed entrare a Homs, nel cuore di quella che ancora viene raccontata come la rivoluzione siriana. Ma sono gli ultimi colpi di un conflitto che presto sarebbe diventato globale. E Marie viene uccisa in un attacco al media center dell’opposizione. Paul è sempre al suo fianco e tocca a lui recuperare il corpo dell’amica e collega. «Per fortuna non riuscivo a vedere il volto di Marie. Aveva la testa e le gambe ricoperte da macerie e la riconobbi dal maglione blu e dalla cintura. Di Rémi (Ochlik, il fotoreporter francese rimasto anche lui ucciso nel raid) vidi solo la schiena sotto lo spesso strato di polvere e detriti. Erano distesi l’uno accanto all’altra, uniti nel loro silenzio. Non sapevo se erano morti nel tentativo di uscire di casa o di rientrarci perché non erano riusciti ad attraversare la strada e a raggiungere l’apparente sicurezza di un altro edificio. Ma tanto non aveva importanza: erano tutti e due morti davanti a me, semisepolti dalle macerie di Baba Amr».

Oggi, a distanza di cinque anni, ora che Assad sembra aver vinto la sua battaglia mentre la famiglia di Marie lotta ancora perché si faccia chiarezza sul raid che l’ha uccisa, Paul sente ancora la nostalgia della sua collega. «Non era solo l’erede di Martha Gellhorn o la grande giornalista con la benda sull’occhio. Era anche divertente, capace di farti ridere fino alle lacrime per una scemata. Anche per questo mi manca». Fiducia, comprensione, empatia. Difficile non scadere nella retorica parlando di due grandi reporter di guerra come loro. Ma le loro storie sono da tenere a mente, tanto più oggi, che le fake news e il clickbaiting rischiano di mangiarsi vivo il giornalismo. «Marie sarebbe contenta di questa storia del film. Certo avrebbe riso di alcune cose, che Hollywood non ti racconta. Ma sarebbe stata felice perché l’avrebbe visto come un modo per tornare a parlare del nostro lavoro, del fatto che i reporter devono andare sul campo per raccontare. Perché solo vedendo con i propri occhi si può comprendere».

Fonte: Corriere.it 14/11/2018


14/11/2018