Escobar e i cacciatori venuti dal nulla


«Eravamo due agenti di periferia che hanno avuto l'opportunità di lavorare ad un caso irripetibile: essere i soldati di prima linea nella più grande caccia all'uomo della storia». Dici Javier Peña e Steve Murphy e pensi al corpo di Pablo Escobar, il più pericoloso e potente narcotrafficante della storia, "sdraiato" il 2 dicembre 1993 sui tetti di Medellin e crivellato di colpi sparati durante la sua fuga. Una foto. Ma anche un quadro, famosissimo, di Fernando Botero, che si trova nel museo della città colombiana, diventata oggi meta di turisti e curiosi. E ora, mentre la vita dei due agenti della Dea — che ha ispirato la serie di Netflix — diventa un libro in uscita in questi giorni in Italia (Caccia a Pablo Escobar, Newton Compton Editori), tornano alla memoria dettagli, e sensazioni di quegli anni.

Ripetete spesso di essere entrambi venuti dal nulla. Ma come si diventa gli uomini che hanno dato la caccia a Pablo? 
Peña: «Io sono di origini messicane, ho studiato sociologia alla Texas A&M University di Kingsville. Poi ho seguito un tirocinio in carcere in un braccio della morte ed è a quel punto che ho fatto domanda per la Dea (l'Agenzia federale Usa dedicata alla lotta al narcotraffico, ndr). Sono arrivato fuoco in Colombia nel 1988».

Murphy: «Io sono atterrato a Bogotà due anni dopo. Sono nato a Memphis e sono cresciuto tra il Tennessee e la Virginia, in una famiglia battista. Mio padre era un commerciante di tappeti e sperava che lavorassi in negozio con lui. Dopo il liceo ho studiato economia aziendale ma poi ho optato per un corso in amministrazione penitenziaria, ho ottenuto uno stage in carcere e, di nascosto dai miei genitori, ho sostenuto il test per entrare in polizia. In seguito ho fatto domanda per la Dea e ho iniziato a lavorare per loro in Florida. Era il mio sogno: all'epoca ero davvero fanatico di Miami Vice».

Cosa vi ha portato a lavorare insieme? 
Murphy: «Siamo molto diversi l'uno dall'altro, credo sia stato questo il collante della nostra amicizia e collaborazione. Javier è un donnaiolo...». 

Peña: «Se vogliamo metterla in questi termini, Steve era sposato prima di conoscere Conny, l'amore della sua vita. Insieme hanno adottato due bambine colombiane». 

Per dare la caccia a Pablo avete rischiato in prima persona, così come hanno rischiato le vostre famiglie. Ai tempi, la polizia colombiana era ritenuta corrotta. Ora le cose sono cambiate? 
Peña: «Gli agenti colombiani hanno avuto un ruolo fondamentale nella cattura di Escobar. Sono morti molti uomini e il loro sacrificio non va mai dimenticato. Per questo ho scelto di dedicare il libro a loro». 

Murphy: «E aggiungo che oggi la Colombia ha fatto grandi progressi. Certo, è un Paese che patisce ancora, così come soffre il suo popolo». 

A questo giornale Jhon Jairo Velásquez Vásquez, alias, Popeye, uno dei sicari di Escobar considerato responsabile di più di 250 omicidi, ha raccontato dei legami che i cartelli colombiani hanno con il Venezuela di Maduro. Poi Popeye è stato nuovamente arrestato. Cosa pensate di lui? 
Murphy e Peña: «A noi risulta responsabile di 300 omicidi ma se ne sospettano anche di più. È stato condannato per l'attentato al candidato alla presidenza Luis Carlos Galán nel 1989. Tuttavia, nel 2014 fu scarcerato dopo aver scontato solo 22 dei 30 anni cui era stato condannato. L'ultima volta che ne abbiamo avuto notizie, organizzava macabri tour a Medellin in cui accompagnava i turisti al cimitero, indicando le tombe delle persone che aveva ucciso».

E del figlio di Pablo, Juan Pablo, che oggi gira il mondo tenendo conferenze sulla prevenzione alla droga, cosa pensate? 
Murphy: «Mentre il padre era latitante ha aiutato a mantenere in vita gli affari del cartello e ne ha preso il controllo. Si sentivano tutti i giorni alle cinque via radio. E le conversazioni si chiudevano con il padre che diceva al figlio "Dios te bendiga", Dio ti benedica. Juan Pablo ha anche cercato di mediare la resa del genitore. Ma è andata in un altro modo». 

2 dicembre 1993, torniamo a quel giorno: non eravate entrambi su quel tetto di Medellin... 
Peña: «Ero stato mandato a Miami a seguire una traccia che sapevamo sbagliata ma dovevamo lo stesso verificare. Arrivato lì una mia fonte mi ha passato il telefono. "Acaban de matar a Escobar", mi hanno detto, "Hanno appena ammazzato Escobar"». 

Murphy: «Ero in caserma, l'operazione era condotta dal Bloque de búsqueda colombiano. Quando ho sentito gridare alla radio "Viva Colombia", sono corso sul luogo, ho iniziato a scattare foto per i rilievi. E quando ho visto il suo corpo mi ci sono accovacciato di fianco. Ed è stato allora che mi hanno immortalato mentre lo tiro per la manica. Uno scatto che mi ha creato parecchi problemi. Perché sembrava fosse stato un americano ad ucciderlo. E invece tutto il lavoro era stato fatto dai colombiani». 

Serie tv, libri, gadget. Escobar continua a fruttare denaro anche da morto: siamo sicuri che tutto questo parlarne non contribuisca a tenere vivo il mito tra i ragazzini delle comunas e non favorisca ancora il reclutamento dei cartelli? 
Murphy e Peña: «Lavorare alla serie di Netflix Narcos è stato stimolante: crediamo che raccontare, significhi anche cercare di spiegare perché. Ed evitare che altri giovani cadano nella trappola. Dunque non siamo contrari a priori. Dipende da come viene fatto e da chi». 

Più di 70 mila americani morti per overdose lo scorso anno, 28 mila a causa degli oppioidi sintetici, metadone escluso. Come è cambiata la lotta al narcotraffico? 
«Oggi il nemico da combattere ha un nome. Si chiama Fentanyl. E arriva negli Stati Uniti passando anche dal Messico».

Fonte: Sette 29/11/2019


29/11/2019

Scarica file PDF allegato