Guerriero, innamorato ma promesso a una donna che non amava: chi era davvero Dante Alighieri?


Lo conosciamo tutti come l’autore della Divina Commedia, ma cosa sappiamodavvero del Dante uomo? Se lo chiede lo scrittore Matteo Strukul nel suo ultimo
libro, «Dante enigma» ( Newton Compton ), e nel ritratto che ha scritto in esclusiva per Vanity.it

 

Matteo Strukul

 

Ho sempre provato una caparbia curiosità per Dante Alighieri, l’uomo. Caparbia perché a scuola, pur nelle importanti e affascinanti lezioni dei miei professori, quella parte del Sommo Poeta mi mancava immensamente. E in un certo senso mi veniva negata. Ma non tanto e non solo dai professori, per altro bravissimi, che si spendevano con passione in letture e spiegazioni, quanto piuttosto dallo stesso Alighieri. Chi era Dante? Il Sommo Poeta, d’accordo. L’autore della Divina Commedia, certo. Eppure era come se l’opera avesse divorato l’artista, un po’ per la riservatezza di Dante che pareva aver lasciato dietro di sé davvero poche informazioni, specie di quei primi anni in cui, amico di Guido Cavalcanti, fondò il Dolce Stil Novo. Ecco allora la donna angelicata, la Vita Nova, Beatrice: tutto magnifico, ma ancora una volta a quei versi, dalla bellezza straordinaria, non riuscivo ad associare l’uomo, semplicemente perché non c’era, quasi volesse giocare con noi lettori, nascondendosi fra liriche immortali.

 

Per questa ragione, in questi ultimi anni, ho voluto provare a sciogliere l’enigma del giovane Dante: un uomo coraggioso che a Campaldino era stato feditore – cavaliere armato alla leggera – in prima linea a fronteggiare l’impatto della carica di Buonconte da Montefeltro e i suoi ghibellini, un giovane perdutamente innamorato di Beatrice Portinari ma incatenato a un matrimonio imposto con Gemma, nipote di quel Corso Donati che era il capo sanguinario della parte guelfa, l’uomo che s’intestò la vittoria di Campaldino.

Che uomo poteva essere quel Dante? Scaraventato in una faida crudele, in uno scontro fratricida fra le guelfe Firenze e Siena, con Volterra e Lucca, da una parte e le ghibelline Arezzo e Pisa dall’altra? Cosa sentiva nel cuore, ingabbiato com’era da quelle nozze non volute? Quali sentimenti provava nel sapere la sua città sull’orlo dell’abisso, stretta nella morsa fra Pisa e Arezzo?

 

Ho poi letto ogni testo di Marco Santagata che sono riuscito a procurarmi. A raccomandarmi l’intera opera del grande dantista è stato un amico carissimo e per me maestro: Massimo Bubola, uno dei più grandi cantautori italiani. Dalle letture dell’opera di Santagata è arrivata, fra l’altro, la riflessione riguardo alla più che probabile ipotesi che Dante soffrisse di crisi epilettiche. Tante volte avevo letto dei suoi mancamenti e incubi: la critica li aveva spesso liquidati come escamotage narrativi ma ora, grazie a Santagata, mi apparivano in una luce completamente nuova.

Avevo allora a disposizione un Dante guerriero, avventuroso, epilettico, innamorato dell’amore ma promesso a una donna che non amava, in attesa di una battaglia definitiva che incombeva su Firenze come una maledizione. Un poeta guerriero. Era un personaggio pazzesco che, ironia della sorte, nessuno, o quasi, si era mai preoccupato di raccontare in un romanzo.

 

E poi c’era Giotto. Che fino al 1290 visse certamente a Firenze, lavorando alla bottega di Cimabue e che, non nobile, doveva far parte della fanteria guelfa a Campaldino nel 1289, dal momento che vennero reclutati tutti i fiorentini fra i quindici e i settant’anni e Giotto di anni ne aveva ventidue, a quel tempo. Aggiungo che sia lui sia Dante erano a Roma nel 1300, per ragioni diverse, nell’anno del giubileo indetto da Bonifacio VIII, e nel 1306 si trovavano a Padova: Giotto a ultimare il suo capolavoro, il ciclo d’affreschi della cappella degli Scrovegni; Dante, molto probabilmente, in fuga da Bologna, a rifugiarsi presso l’università del Bo’, già divenuta importante centro culturale. Tutto questo per dire che, se è vero che non esistevano prove in merito all’amicizia fra i due non ve n’erano nemmeno del contrario. E dunque, come romanziere, non potevo perdere l’occasione di vedere Dante e Giotto fianco a fianco a Firenze e sul campo di battaglia a Campaldino.

 

Ma rimanevano ancora molti interrogativi: qual era la storia di Ugolino della Gherardesca, che di Corso Donati era alleato, finito morto d’inedia con figli e nipoti nella Torre della Muda, tradito dall’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini? È stato proprio studiando la storia di Ugolino che ho scoperto una donna come Capuana da Panico, moglie in seconde nozze proprio di quest’ultimo e nipote dell’uomo che l’aveva condannato a morte. Ecco allora un altro personaggio straordinario stagliarsi nella mia mente: quello di una donna che perde il marito, assassinato dallo zio, e che viene rinchiusa in un monastero. E poi avevo Buonconte da Montefeltro, sconfitto a Campaldino, morto “forato ne la gola” in circostanze misteriose nelle acque dell’Arno, là dove vi confluisce l’Archiano. E poi c’era Filippo Argenti che molti commentatori ritengono mai esistito. E Guido Cavalcanti: amico, maestro e però fiero magnate, quasi irraggiungibile per uno come Dante. Il quale, pur nobile, faceva fatica a far quadrare i conti, lui che non aveva nemmeno i denari per comprarsi la cotta di maglia da feditore: furono la sorella Gaetana e Vieri de’ Cerchi a dargli il denaro necessario.

 

Per queste ragioni, credo che questo romanzo possa da una parte avvicinare lettrici e lettori alla figura di Dante in un modo diverso e inedito e dall’altra scaraventarli nel medioevo fiorentino al fianco del Sommo Poeta nelle faide fra guelfi e ghibellini.

 

 

 

 


21/05/2021

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