Il Canaro della Magliana. Il killer che fu perdonato dalla gente


Aveva subito per anni violenze e maltrattamenti. Poi il 18 febbraio 1988 Pietro De Negri, toelettatore di cani, diede sfogo al suo odio, tormentando e uccidendo Giancarlo Ricci, il suo aguzzino. Uno dei più truci delitti italiani è ora un film (in concorso a Cannes) e un libro. Che lo stesso autore, il giornalista e scrittore Massimo Lugli, qui ci presenta.

Di Massimo Lugli

Gli ho lavato il cervello con lo shampoo dei cani». Chi era nella stanza della Sezione omicidi il 21 febbraio 1988 (tre giorni dopo uno dei delitti più cruenti che la cronaca ricordi), quella frase non la dimenticherà mai. Non tanto per l'orrore di quelle dieci parole, né per il fatto che dopo ore e ore di interrogatorio, Pietro De Negri fosse crollato improvvisamente quando ormai gli esausti poliziotti che lo stavano torchiando avevano quasi dato forfait. No, quello che lasciò un ricordo indelebile negli investigatori fu la voce: una voce roca, agghiacciante, cupa, diversissima dal balbettio stridulo con cui l'uomo aveva negato fino a notte fonda. La voce del Diavolo. «Mi è sembrata la scena di Schegge dì Paura in cui Edward Norton, di punto in bianco, confessa tutto al suo avvocato, interpretato da Richard Gere», ricorda Antonio Del Greco, funzionario di Polizia che arrestò De Negri e lo irretì in una sottile trappola psicologica, tutta basata sul suo amor proprio, quando ci si rese conto che i sistemi tradizionali (urla, pugni sul tavolo, minacce, blandizie e il vecchio "gioco" dello sbirro buono e quello cattivo) non avrebbero funzionato.

Riassunto delle puntate precedenti: in una discarica del quartiere romano Portuense, la mattina del 19 febbraio viene scoperto un cadavere bruciato, tanto scempiato da far pensare a un rituale satanico. Particolari e dettagli da divieto ai minori. In sostanza Giancarlo Ricci, ex pugile dilettante, ex tossicomane, classico "Barabba" di borgata romana, erede di una nobile tradizione di bulli, sempre pronto a massacrare di botte chiunque, era stato fatto a pezzi in senso letterale.

La storia che venne fuori durante il tenibile racconto del "Canaro" della Magliana (come De Negri fu battezzato dalla stampa del quartiere, visto che aveva un negozio di toilette per cani in Via Della Magliana 253) sembrava la rivisitazione di uno dei racconti più angoscianti di Edgar Allan Poe, La botte di Amontillado. Due amici-nemici legati da una sorta di rapporto sadomaso: uno (il pugile) prevarica, schernisce, deride, insulta, deruba, aggredisce l'altro (il Canaro) che, mansueto, remissivo, vile, apparentemente inerme, subisce tutto senza reagire. In realtà cova odio. Sta preparando una vendetta al di là di ogni delirio orrorifico.

Quella del Canaro si consumò nel suo negozio. «L'ho torturato per almeno sette ore», dirà con macabro orgoglio ai magistrati, anche se i periti accertarono che l'agonia era durata "solo" quaranta minuti, gran parte delle mutilazioni furono inferte su un cadavere. Sentenza prevedibile: 24 anni di carcere, con scarcerazione però nel 2005. Morale fin troppo facile, ancora una volta, letteraria. «Temi l'ira del mansueto», disse Confucio.

Con tanti elementi simbolici, quasi inevitabile che la truce storia del Canaro. A 30 anni di distanza, diventasse un film e un romanzo. Il film, Dogman, è di Matteo Garrone (regista anche di Gomorra), e viene presentato al 71° Festival di Cannes iniziato l'8 maggio. Il romanzo è quello che io e Antonio Del Greco (proprio l'investigatore- cinefilo, deus ex machina della confessione) abbiamo scritto per Newton Compton, ed è già in libreria.

Docufiction è un termine di moda, ma non mi piace. Dimentichiamocene subito, anche se va forte. Per una coppia di autori (e amici) affiatala come me e Antonio (abbiamo pubblicato assieme Città a mano armata e stiamo lavorando con entusiasmo a un terzo libro) imbastire una trama sulla tragedia della Magliana è stata stata un'autentica sfida. Qualunque romanzo ha bisogno di un personaggio positivo in cui il lettore possa identificarsi, e di un finale che, in qualche modo, non lasci troppo l'amaro in bocca. Ma dove lo vai a trovare un eroe positivo in una storia come questa della Magliana? Nell'assassino che trasformi in una sorta di demone vendicatore? Nella vittima innocente che tanto innocente non era, visto che tutto il quartiere ne aveva una strizza folle, viveva di furtarelli, piccolo spaccio, così odiato che qualcuno, in passato, gli aveva fatto scoppiare le gambe a revolverate? Nella galleria di comparse del quartiere, tra cinismo, bugie, omertà, false verità, dubbi inconcludenti e quasi assoluta, generale mancanza di pietas?

L'idea ci è venuta dall'emozione più violenta, implacabile e primordiale che un essere umano può provare: l'amore. Una storia d'amore assurda, sbagliata, inconcepibile, come sono spesso i grandi amori senza destino che cambiano la vita e la stravolgono: la passione di una poliziotta, un'ispettrice della Squadra Mobile, che segue le indagini e un suo ex fidanzatino, cresciuto nella stessa borgata (la Magliana), sempre sul confine del Codice penale, un po' di eroina e cocaina alle spalle, e che s'arrangia con mille lavoretti cercando di tirare dritto ma non disdegna furtarelli o spaccio. Quelle figure da zona grigia che a Roma definiscono "bru bru". Un amore impossibile che nasce, cresce e si rafforza parallelamente all'inchiesta sul delitto, di cui ci siamo presi la libertà di dilatare parecchio i tempi, visto che l'indagine andò a bersaglio nel giro di tre giorni. Ma del resto, e vale la pena di ripeterlo, il nostro è un romanzo non un istant book a scoppio ritardato, neanche una delle tante rievocazioni che si sono già viste sugli scaffali.

Verità e fantasia, cocktail che funziona sempre. Molti capitoli, soprattutto quelli ambientati nelle segrete stanze di San Vitale, Questura di Roma, fotografano, con esattezza da documentario, quello che avvenne in quei tre giorni al cardiopalma, con la stampa che premeva, il Questore che tempestava di richieste, il Ministro che incalzava, i poliziotti fuori dalla grazia di Dio per la tensione.

Solo uno sbirro può descrivere modi, mode, espressioni, tecniche, convenevoli, rapporti tra sbirri. Solo uno scrittore sa raccontarli cercando di non scadere nella commedia (o tragedia) di genere o nei più squallidi luoghi comuni. Antonio e io, in questo, siamo perfettamente complementari. In appendice, tanto per tornare alla realtà, è pubblicato il vecchio, sbiadito verbale della confessione di De Negri. Attenzione: chi è troppo impressionabile salti le ultime pagine, che arrivano dopo un finale con un colpo di scena top secret.

Pietro De Negri ha scontato la pena da detenuto modello, è tornato in famiglia, ha lavorato per un po' come fattorino in uno studio legale. In sostanza è scomparso nel nulla. «Voglio essere dimenticato», sono le uniche tre parole che ha detto ai cronisti.

Solo un dubbio: chissà se De Negri andrà a vedere Dogman, film di Garrone, o se leggerà il nostro romanzo, Il Canaro della Magliana.

Fonte: Visto 09/05/2018


09/05/2018

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