Il Canaro della Magliana tra realtà e mito


Di Maurizio Gallo 

Romanzi, saggi, film. A trent'anni di distanza l'agghiacciante vicenda del «Canaro della Magliana» continua ad avere un suo macabro appeal. Ma più che i fatti nudi e crudi, molto diversi da quelli riferiti nel primo verbale d'interrogatorio in Questura e nel «memoriale» che Pietro De Negri scrisse in carcere, a sopravvivere al tempo è stata la «narrazione» del caso nell'immaginario collettivo. Dopo tre decenni, a restare scolpito nella mente dei romani (e non solo) è un racconto per la maggior parte frutto di un delirio, di quello che «l'uomo dei cani» avrebbe voluto fare, non di quello che ha fatto. L'idea del Davide che sconfigge il Golia dopo anni e anni di soprusi e violenze subite in silenzio, l'ira del mite che si scatena facendo giustizia (finalmente!). Chi ha vissuto quel 1988 ricorda che per mesi, dopo la scoperta dell'omicidio di Giancarlo Ricci e la «confessione» di De Negri, la vicenda veniva citata come esempio di vendetta da giustiziere della notte: «Attento, che se fai il prepotente, chiamo il Canaro!», si diceva scherzando negli uffici e nei bar. E quando De Negri venne rilasciato quindici mesi dopo l'arresto (ritenuto incapace d'intendere e di volere per via dell'intossicazione cronica da cocaina) e rilasciò un'intervista in cui rivelava: «Lo rifarei, rifarei tutto», venne subito riportato in carcere, anche se la sua pericolosità sociale era pari a zero, perché quell'atroce episodio non si sarebbe potuto ripetere. Più che la realtà, insomma, faceva paura la fantasia, l'orrore che era fuoriuscito come un puzzo pestilenziale da quel maledetto negozio di toeletta per cani. 

La fiction. II volume «di fantasia» di Lugli e Del Greco 
«Il romanzo c'era già nel delirio di De Negri» 

Da libro nasce libro. Così al veterano di «nera» e scrittore di noir Massimo Lugli e all'ex superpoliziotto Antonio Del Greco è venuta l'idea di scrivere un romanzo sull'atroce vicenda del «Canaro della Magliana». Non è il primo lavoro che fanno insieme. Anche in questo caso, come per Sanvitale e Palmegiani, la collaborazione fra investigatore e narratore ha dato ottimi frutti, collocandosi fra realtà e fantasia. Ma nel lavoro di Lugli e Del Greco la cronaca è uno spunto, la fantasia prevale. «Scrivendo con Antonio "Città a mano armata" abbiamo pensato che in quel libro c'erano molte trame per un romanzo. Inoltre, nel caso reale del Canaro la parte letteraria è molto forte, la storia ricorda il racconto di Poe "La botte di ammontillado"». 

L'uscita in coincidenza con il film di Garrone è casuale? 
«Stavamo già scrivendo, l'editore ha saputo del film e ha voluto che accelerassimo i tempi per uscire in simultanea. È stato un vero tour de force...». 

Quanto c'è di vero e quanto di fiction nel vostro lavoro? 
«La vera storia dell'omicidio è molto breve e si consuma in pochi giorni, dal ritrovamento e dall'identificazione del cadavere di Ricci all'arresto di De Negri. Non era una cosa che poteva reggere 400 pagine, quindi abbiamo creato una storia nella storia, quella di un'ispettrice dalla Mobile che indaga sul delitto e si innamora di un "barabba" della Magliana. Tuttavia, come dicevo, già nella confessione del Canaro e nei suoi deliri c'era molta letteratura». 

In che senso? 
«Beh, lui aveva dato voce alla sua immaginazione e ai suoi incubi, ha vissuto un delirio e l'ha raccontato, a prescindere da quello che era accaduto veramente. Disse bugie senza scopo, come quella che era andato lui a prendere la figlia a scuola, mentre invece c'era andata la moglie». 

Malgrado questo, com'è avvenuto per Girolimoni, innocente e considerato per sempre colpevole nel cosiddetto immaginario collettivo, ancora oggi tutti credono alla versione di De Negri. Come mai, secondo te? 
«Una parte di verità c'era...». 

Quale? 
«Quella del debole che si ribella al prepotente più forte di lui. Che De Negri fosse un pavido era chiaro fin dall'inizio e Antonio, quando lo interrogò in Questura, rimase colpito dalla paura che aveva dei poliziotti».

Però, raccontò un sacco di balle... 
«Ha retto per ore nella versione della rapina, cioè sostenendo che non aveva ucciso lui il pugile ma che avevano organizzato insieme un colpo ai danni di uno spacciatore di cocaina siciliano, inducendo quindi a credere che il movente dell'omicidio fosse la vendetta. Poi, improvvisamente modificò il tono di voce, sembrava un altro. E disse: "Gli ho lavato il cervello con lo shampoo per cani". Aveva cambiato personalità da un momento all'altro. Insomma, non era certo una persona lucida ed equilibrata. E infatti venne giudicato parzialmente infermo di mente». 

La collaborazione con un investigatore di lungo corso come Antonio Del Greco è servita a rafforzare la tua esperienza di nerista? 
«Sicuramente rappresenta la metà dei risultati raggiunti dal nostro lavoro, ma non solo per quanto riguarda la parte reale. Sebbene lui si basi molto sulla sua esperienza professionale, ha una fantasia sorprendente e quindi è stato fondamentale anche per l'altro aspetto, quello creativo». 

Puoi fare qualche esempio? 
«Il dettaglio sul confidente della polizia che si vuole fare arrestare per far vedere che non è un infame, una spia delle guardie, è autentico. Idem per altri casi che abbiamo sfruttato come base di partenza». 

Possiamo dire che questo libro, a differenza di altri scritti da te, è un mix? 
«Sicuramente è il mio lavoro più noir e, contemporaneamente, quello più realistico. Fantasia e realtà interagiscono in continuazione». 

La tua prossima fatica? 
«Un romanzo criminale che racconterà la genesi della malavita di Ostia». 

Perché non dici della "mafia" di Ostia? 
«Quella scoperta è una grande organizzazione criminale, ma non è mafia, come non lo era la Banda della Magliana. Non credo all'adozione del 416 bis per l'inchiesta "Il mondo di mezzo", perché mancano molti elementi fondamentali: il totale controllo del territorio, la segretezza e i riti di iniziazione, la militarizzazione della zona e una gerarchia molto rigida. Stesso discorso per la testata di Spada all'inviato di Nemo. Ci voleva l'aggravante mafiosa per arrestarlo? Non era già grave di per sé? Non era sufficiente a far scattare le manette aver picchiato un giornalista?». 

Fonte: Il Tempo 22/05/2018


22/05/2018

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