LA NOBILE ARTE DEL RACCONTO


Bibliotecario e archeologo, vincitore del Bancarella nel 2012, lo scrittore ci spiega la sottile differenza tra narrativa breve e romanzo

Marcello Simoni su Repubblica

 

Credo che il mio primo incontro con la narrativa breve risalga a decenni fa, quando mi trovai tra le mani una vecchia edizione delle Fiabe italiane di Italo Calvino. Dovevo avere sette o otto anni e quel libro era davvero in pessime condizioni, senza copertina e mezzo sfascicolato. Del resto, ero abituato allo stato dei piccoli tesori – per lo più fumetti, ma anche una copia integra e illustrata di I figli del capitano Grant – che reperivo durante le mie saltuarie incursioni nella soffitta dei nonni.

Ricordo che restai subito affascinato dai titoli dell’Uccel bel-verde e di Giovanni Benforte, immergendomi nella lettura come il Bastian della Storia infinita. Era come mangiare dei cioccolatini, mi dicevo. Un racconto tirava l’altro, in un susseguirsi di trame brevi e appassionanti che consentivano alla mia immaginazione di aprire le ali su scenari sempre diversi, guidata dalla prosa di uno degli autori che maggiormente avrebbero influenzato le mie future scelte di stile come narratore.

Fu sempre attraverso Calvino, molti anni dopo – ma stavolta il Calvino del Castello dei destini incrociati, Le città invisibili e Sotto il sole giaguaro – che intuii le reali potenzialità della narrativa breve e la sua enorme differenza rispetto alla forma del romanzo. Se la prima, infatti, mi ricordava una finestra alla quale affacciarsi per un istante, così da cogliere il piacere effimero di una vista lontana, lo scatto di una fotografia, la seconda poteva essere paragonata a una casa, a un palazzo o addirittura a un mondo intero in cui abitare per qualche settimana e prendere graduale confidenza con chi ci viveva dentro. E per quanto stimolante fosse l’idea di progettare l’ardita architettura di un romanzo, fu grazie a Calvino che iniziai a intuire che la levità del racconto fosse un risultato altrettanto difficile da conseguire. Anche se l’impulso vero e proprio di cimentarmi nella scrittura derivò da altri grandi amori: i racconti di Poe e di Lovecraft, ai quali si aggiunse ben presto La boutique del mistero di Dino Buzzati.

Al di là degli scenari gotici e dei personaggi tormentati, quel genere di narrativa

breve mi colpì per la sua capacità di catapultarmi nelle situazioni più agghiaccianti con rapide pennellate, incatenandomi alla trama fin dall’incipit. E fu proprio per mezzo di essa che appresi l’importante lezione dell’economia del racconto, ossia quel gioco di prestigio capace, attraverso una “dieta” oculatissima della prosa e un’attenta selezione del linguaggio, di sedurre in un batter d’occhio il lettore senza concedergli il tempo di pensare: “E se provassi a leggere qualcos’altro?”.

La sostanziale differenza tra il romanzo e il racconto, potremmo dire, sta tutta qua. Se al primo si concede di norma qualche pagina prima di decidere se ci piaccia oppure no, il giudizio sul secondo è spietato. O ci conquista fin dalle prime righe, o iniziamo a scartabellare nervosamente, alla ricerca di un altro racconto o addirittura di un altro libro.

Cioccolatini, signori. Se ci piacciono finiremo la scatola a costo di farci venire il mal di pancia, altrimenti passeremo a leccornie all’apparenza più appetitose. Lo sapeva bene Boccaccio, che nel suo Decameron dà prova di un’agilità funambolica nella narrazione, e ancor più lo sapeva Giambattista Basile, avvezzo a leggere ad alta voce i suoi cunti davanti alle corti napoletane del primo Seicento.

L’arte del racconto, tuttavia, non si riassume nella ruffianeria dell’incantare il pubblico. Dietro quel delicato connubio tra leggerezza e sostanza che potrebbe ingannevolmente passare per mero potere di sintesi, questa espressione narrativa cela un’anima metafisica riscontrabile non solo nelle opere brevi di Buzzati, ma anche nel respiro apologetico di Esopo, nella divulgazione agiografica di Jacopo da Varazze, nelle testimonianze più o meno credibili di Marco Polo, nelle sciarade bibliofile di Borges e nelle vite immaginarie di Marcel Schwob. Persino la magia delle Mille e una notte – benché filtrata da un non del tutto affidabile Antoine Galland – si nutre di qualcosa di più dell’immediata ricerca del meraviglioso, soffiando su una vastità dei deserti orientali fino a depositarli, un granello per volta, dentro il nostro cuore.

È questa alchimia così difficile da ricreare che rende il racconto la croce e la delizia di ogni scrittore. La bilancia dell’ineffabile capace di descrivere con la voce del vento l’incanto e la cattiveria, i labirinti e la miseria del mondo. Come fanno, in tempi recenti, Jack London e Richard Matheson, pur trovandosi ai poli opposti di un

universo dell’immaginario che da un lato spazia nell’avventura e dall’altro nei risvolti più inquietanti dell’horror e della fantascienza.

Ma il discorso non sarebbe concluso senza citare due maestri che del racconto hanno fatto uno strumento della detection: Maurice Leblanc e Conan Doyle. Se la narrativa fosse un pianeta, loro sarebbero rispettivamente i sovrani dell’emisfero del crimine e di quello dell’investigazione grazie ai loro impareggiabili Arsène Lupin e Sherlock Holmes, protagonisti di romanzi ma anche di racconti in cui rapidità, perfezione del linguaggio e introspezione la fanno da padrone.

Racconti che spesso rileggo, mentre lavoro ai miei testi, come un marinaio d’altri tempi che, aggrappato al timone, consulta un portolano. O come quel bambino che, tanto tempo fa, cercava libri nella soffitta dei nonni.

 


05/12/2021

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