La potenza di Artemisia


Una pittrice eccezionale al tempo di Caravaggio

Intervista di Maria Vittoria Vittori

Folgorata già in tenera età – come lei stessa racconta – dalla Cena in Emmaus di Caravaggio, Alex Connor, pittrice e storica dell’arte, ha messo passioni e competenze al servizio della fiction. Che, per l’appunto, sceglie come soggetti privilegiati grandi pittori come Rembrandt – protagonista del suo fortunato libro d’esordio – e, soprattutto, l’amato Caravaggio, artista contrassegnato da un’esistenza alquanto tumultuosa e da un modo di dipingere che ha inaugurato un diverso modo di vedere la realtà. Ma non fatevi convincere fino in fondo da quell’etichetta di thriller, per quanto sostanzialmente fondata, attribuita ai suoi romanzi best seller, perché, insieme a una trama ben congegnata in cui intrighi e cospirazioni ruotano intorno a un nodo misterioso da decifrare, c’è tutto un paesaggio artistico rappresentato con perizia. E c’è, soprattutto, una scrittura avvincente e incisiva, in grado di portare allo scoperto gli aspetti meno conosciuti degli artisti.

Cosicché quando, in Eredità Caravaggio – ultimo volume della trilogia con Caravaggio enigma e Maledizione Caravaggio – ha fatto irruzione Artemisia Gentileschi, attraverso quattro misteriosi taccuini entrati in possesso, a distanza di quattro secoli, della collezionista d’arte Cornelia Stein, abbiamo provato il desiderio, e anzi l’urgenza, di rivolgere qualche domanda a Alex Connor. Perché la pittrice Artemisia Gentileschi, variamente reinterpretata nella letteratura – dalla nostra Anna Banti in poi – è figura potente, capace come nessun’altra di provocare emozioni, interrogativi, riflessioni di assoluta attualità.

Può raccontarci come è nata l’idea di un romanzo su Artemisia all’interno di una serie incentrata su Caravaggio? Qual era il suo intento?

«Sin dall’infanzia ho subito il fascino di Caravaggio. La prima “scossa” la ricevetti guardando la sua Cena in Emmaus, e lì nacque la mia passione. Ben presto mi misi a scoprire tutto quello che potevo sulla vita dell’artista, e fu così che venni a conoscere artemisia Gentileschi. Caravaggio – che ora si considera un vero fenomeno – aveva avuto nella vita pochi apologeti e ancor di meno ne ebbe Artemisia. Se la bravura, la temerarietà e l’ambizione di Caravaggio echeggiavano in me, la storia di Artemisia, invece, mi faceva infuriare, anche da adolescente. L’ingiustizia per cui un genio fosse penalizzato per il suo essere donna e fosse considerato una “puttana” per essere stata vittima di stupro ha alimentato la mia determinazione di trascinarla una volta per tutte dall’oscurità stigia alla luce del xxi secolo. Mentre crescevo e sperimentavo in prima persona la violenza, le esperienze di Artemisia diventavano sempre più una questione personale e fu allora che decisi come avrei voluto raccontare la sua storia. Così nacque l’idea per cui avrei scritto di Caravaggio – con Artemisia come sua vera erede, dandole così il rilievo che merita. Mi chiedi quale fosse l’intento. L’obiettivo c’era, ed era quello cui ho fatto riferimento poco fa. Ma il tempo è beffardo, e non potevo sapere, quando iniziai a raccontare la storia di Artemisia, che essa avrebbe catturato lo Zeitgeist e avrebbe coinciso con quell’esplosione sociale che abbiamo vissuto con il movimento #MeToo. Lentamente, ma in modo convincente, Artemisia è diventata una figura rappresentativa, per ricordare che gli abusi del ventunesimo secolo non sono un’aberrazione moderna. Bisogna ricordare che lei fu una donna che aveva passato l’infanzia circondata da pittori. Suo padre, Orazio, era conosciuto per la sua tempra; «più bestia che uomo», scrisse un suo mecenate, ed era temuto per la sua irascibilità. Un delinquente talentuoso autore di scorribande con Caravaggio, che prendeva parte a risse, che corteggiava puttane come Fillide Melandroni – «la più famosa cortigiana di Roma». Il padre di Artemisia era un caro amico del rissoso lombardo. Caravaggio prese in prestito delle ali di scena da Orazio, visitava la loro casa, si ubriacava, e con Orazio fu mandato in prigione per aver diffamato un rivale. Come poteva allora Artemisia – pittrice ancora alle prime armi – non poter essere influenzata da Caravaggio? La violenza, la forza bruta dell’opera caravaggesca deve averle lasciato un segno indelebile e quando Orazio trascinò in giudizio Agostino Tassi, mentore di Artemisia, accusandolo di stupro, la giovane fu sottoposta a tortura per provare la propria innocenza. Gli enormi temi etici della mortalità, della morte, della brutalità e dell’onore caddero vergognosamente sulle spalle di una ragazza di diciassette anni. Dubito che se non fosse cresciuta nel quartiere degli artisti di Roma – dove la dodicenne Artemisia fu catapultata in un mondo di soli uomini alla morte della madre, avrebbe potuto trovare la forza necessaria per far fronte al dramma dello stupro.  Caravaggio aveva creduto nel suo talento. Questa convinzione era il leitmotiv della vita di Artemisia. Considerata una puttana, sposata a un pittore minore fiorentino, Artemisia aveva preso dal padre la rabbia, che però usava con sapienza, facendosi strada tra rivali maschi e talenti inferiori al suo.
 

Mi sembra che un aspetto innovativo del romanzo sia il rapporto, finora trascurato, di Artemisia con le altre donne. Merita attenzione soprattutto l’incontro con la pittrice Sofonisba Anguissola. Perché ha affidato proprio a questo personaggio il compito di far luce sulle ragioni più profonde della pittura di Artemisia?

«Sofonisba Anguissola era l’antitesi di Artemisia Gentileschi. Discendeva da una famiglia nobile, seppur impoverita. Una pittrice ammirata e rispettata da artisti come Van Dyck. Ma lei non dà luce ad Artemisia; si limita a riconoscere il motivo alla base dell’arte di Artemisia e la sfida con l’intuizione. Artemisia era cosciente fin dall’inizio della propria carriera artistica del fatto che per sopravvivere nel mondo dell’arte doveva dare ai propri mecenati qualcosa di esclusivo, di memorabile. Nel romanzo, ammette di voler solleticare l’attenzione del suo pubblico – del suo pubblico maschile – poiché solo gli uomini avevano il potere di commissionare opere d’arte. Erano gli uomini che doveva accontentare. Con abilità, pertanto, faceva uso della propria notorietà dipingendo donne intraprendenti che si vendicavano di quegli uomini che avevano abusato di loro, consapevole che queste immagini avrebbero stimolato la libido maschile. Dipinti come Giuditta e Oloferne sono profondamente sessuali, dipingendo una donna che sovrasta fisicamente un uomo, una donna invincibile sotto la quale l’uomo è letteralmente impotente. Questa è la posizione del missionario al contrario; il sesso estinto dalla violenza e dalla morte. Credo che Artemisia disprezzasse Sofonisba, e che l’ammirazione che le veniva tributata la irritasse. L’opera di Sofonisba non ha nulla del crudo impatto che caratterizza quella di Artemisia; aveva talento ma attutito, emotivamente limitato. Artemisia era stata pubblicamente umiliata e mai riuscì a liberarsi del giudizio che di lei aveva la società. Alla sua morte, le riservarono due epitaffi, ambedue offensivi e osceni. Era chiamata puttana, e anche quando divenne la prima donna a essere eletta all’Accademia delle Arti del Disegno in Firenze e a ricevere commissioni da Cosimo de’ Medici e dal re Carlo I, continuò a essere considerata un freak, una strana creatura. Cosa ne sapeva l’economicamente stabile, osannata Sofonisba Anguissola di come si amministravano l’ambiente domestico, le finanze, la famiglia, il vitto e l’alloggio? Tutto questo faceva, invece, Artemisia, in un momento in cui era considerato aberrante che fosse una donna ad avere il comando. Era lei a portare il pane a casa, e questo avveniva in Italia, un Paese che così tanto apprezza il predominio maschile. Il suo talento, le sue attività commerciali e i suoi lunghi e spesso pericolosi viaggi per cercare commissioni all’estero erano considerati come attività maschili e, nonostante Artemisia non avesse altra scelta, il suo stile di vita non faceva che contribuire a danneggiare la sua reputazione. Al contrario, Sofonisba raggiunge il successo senza alcuno sforzo. Michelangelo riconobbe il suo dono, così come fece la corte di Spagna. Ma le sue opere migliori sono quelle che ritraggono lei stessa e i suoi figli, ritratti di famiglia gradevoli ma di poche pretese. Era così poco da Artemisia curare la propria immagine pubblica di fronte a un incessante scenario di pettegolezzi che la riguardava. Nonostante Tassi fosse stato dichiarato colpevole dello stupro e prontamente esonerato dal Papa, ben presto tornò a lavorare con Orazio. Immagina cosa deve essere stato per Artemisia vedere il padre in buoni rapporti con l’uomo che aveva abusato di lei. Io ho la sensazione che Artemisia non si fidasse delle donne. Sua madre era morta quando lei era bambina e lei era cresciuta circondata da soli uomini. Degli uomini aveva visto le debolezze, sia nel padre che nel marito. Più avanti scoprì che uno dei suoi fratelli le sottraeva denaro per pagare puttane. Dagli uomini si aspettava, e forse a malincuore accettava, il tradimento, ma d’istinto non riponeva fiducia nelle donne. Perché no? Tuzia, la donna che era stata assunta da Orazio per proteggere la giovane Artemisia, era stata proprio colei che aveva permesso a Tassi di accedere nella stanza della ragazza, la stessa donna che ne aveva ignorato le richieste di aiuto mentre subiva lo stupro. Artemisia non aveva modelli di riferimento femminili, e sebbene Sofonisba poteva rappresentare per lei oggetto di un profondo interesse, dubito che l’ammirasse. La pittrice più anziana aveva qualcosa che Artemisia mai avrebbe ottenuto: il rispetto. Artemisia era la pittrice più grande, ma sempre portava con sé l’ombra del quartiere degli artisti e del tribunale. Se Sofonisba era la rosa da salotto, Artemisia era un’orchidea che inesorabilmente cresceva da un cumulo di sterco.

L’altro personaggio che si muove in un mondo prevalentemente maschile, a distanza di secoli, è Cornelia Stein. Il mondo dell’arte è ancora così diffidente verso le donne?

«Assolutamente sì! Ci sono ora molte donne che lavorano nel mondo dell’arte, sia come pittrici professioniste che come mercanti, ma è un commercio ancora prevalentemente maschile, e gli uomini che se ne occupano possono ancora essere molto paternalistici. C’è un’atmosfera da collegi privati maschili, soprattutto in Inghilterra, e molte delle gallerie in Europa sono concepite come vere e proprie attività familiari e come il territorio del giudizio maschile. I grandi storici dell’arte erano uomini, chi scriveva d’arte era uomo, le poche donne che hanno provato a introdursi in questo ambiente sono state considerate inferiori. I legami creati nei circoli per gentiluomini o sui campi da golf hanno portato a concludere numerosi affari, e nonostante la gran parte del mondo dell’arte sia rispettabile, il resto è un abbeveratoio per delinquenti e avanzi di galera. I disonesti, i contrabbandieri e i falsari sono quasi esclusivamente uomini. C’è un altro motivo per cui gli uomini sono ancora diffidenti nei confronti delle donne nel mondo dell’arte: si reputano davvero migliori nell’apprezzare le arti. Fino agli anni Trenta, era impensabile per una donna stimare il prezzo di un dipinto, o indagarne la provenienza. Come poteva una donna avere la responsabilità di un’opera d’arte dal valore inestimabile? O di gestire enormi quantità di denaro? Gli uomini erano abituati a lavorare in banca e in finanza, le donne gestivano la casa... Ma questa è la tradizione. Una tradizione lenta a morire, ma già in uno stato terminale. Quando un numero maggiore di donne entrerà nelle case d’asta, acquisirà potere nel mercato dell’arte e aprirà una galleria propria, avverrà un cambiamento epocale. Un uomo ha abilità ed esperienza, ma una donna ha l’emozione. La debolezza di cui gli uomini parlano con sarcasmo è, in realtà, una virtù che dà alle donne un vantaggio nel mondo dell’arte. Una battaglia d’istinto contro la tradizione. È un pensiero intrigante, e sarà affascinante vedere come – e quando – le piattaforme teutoniche slitteranno sotto i pavimenti di moquette delle gallerie d’arte. Nel libro, Cornelia Stein funge da contrappeso ad Artemisia Gentileschi. A dividerle ci sono dei secoli, ma entrambe sono state abusate e oggetto di paternalismo da parte di uomini. Quando Cornelia si trova in una situazione pericolosa, ha una scelta: fare quello che ha sempre fatto mettendosi da parte o rimanere in piedi e tenere duro. Durante un matrimonio lungo e infelice, Cornelia ha dato la precedenza a suo marito, ma quando è messa di fronte al coraggio di Artemisia, trova l’ardire e la ragione per esporsi al rischio. Cosa che fa, con effetti devastanti.

Che cosa in particolare, secondo lei, nelle vicende e nei dipinti di Artemisia, continua a esercitare un’attrazione così potente?

«La sua forza di volontà. Una indomabile forza di volontà. Una forza vitale. Un talento che urla a chi lo guarda, che richiede attenzione. Apprezzami, dicono i quadri di Artemisia, ammirami, lascia che ti incanti… È vero che molti tra i suoi contemporanei non credevano che una donna avesse dipinto Giuditta e Oloferne. Si chiedevano: quale donna dipinge un omicidio? Quale donna normale dipingerebbe il panico negli occhi della vittima, la presa crudele sui capelli, il raschiare frenetico per tentare di scappare? Artemisia lo ha fatto. E sapeva esattamente come ottenere la propria vendetta su Tassi. Ma non nella maniera in cui pensano in molti. Artemisia non è mai stata una vittima. I suoi quadri omicidi non sono urla disperate di una donna sofferente, sono piuttosto il suo passaporto per andare dalla pena e dall’infamia verso le corti d’Europa. Credo, inoltre, che le opere di Artemisia – specialmente le prime, perché successivamente ha dovuto a malincuore adattarsi alle mode – risultino a molti spaventose. Chi guarda sente la rabbia viscerale nei quadri di Artemisia. Nelle sue Giuditta, Medea e Giaele c’è una tale ferocia da richiedere una qualche risposta. Troviamo bella Giuditta, mentre decapita Oloferne? Quelle mani possenti, senza pietà e quel suo collo sotto sforzo? No, non è bella perché lei non è cosciente della nostra presenza ed è concentrata nel suo compito. Questa Giuditta non è un’eroina che si pavoneggia, è intenta nell’esecuzione di un uomo che altrimenti ucciderebbe lei e il suo popolo. Questa Giuditta è macchiata di sangue; suda mentre uccide, ed è in tensione al sentire il rumore di passi che si avvicinano. È irata, vendicativa, terribile, e per questo siamo sovrastati dalla sua apparizione e trascinati in quella che riconosciamo come la verità. Altre pittrici hanno dipinto Giuditta, ma l’hanno rappresentata dopo l’evento, mentre teneva tra le mani la testa di Oloferne con l’emotività di una donna che porta una borsa di cipolle. Queste artiste sono giocatrici minori nella partita. Artemisia non è mai stata così. Può essere stata dimenticata per secoli, lasciata ai margini, relegata in affollate cantine nelle gallerie nazionali, ma non è più così. “C’è una marea nelle faccende degli uomini”, come diceva Shakespeare, e questa è la sua. Abusata, attaccata, umiliata e oggetto di scherno – il simbolo perfetto della nostra generazione, che ora sfida il comportamento e il potere maschili – Artemisia si presenta a noi con l’eredità di Caravaggio spalmata sulle sue tele e concentrata nelle spatole dei suoi pennelli. Che tu mi creda o no, lo stupro non ha dettato la direzione della vita di Artemisia. Caravaggio l’aveva ispirata durante la sua infanzia, nella fase in cui era più vulnerabile. Aveva visto la sua opera, conosciuto l’uomo, e mise a punto l’inganno più perfetto della storia dell’arte. Non era semplicemente una donna. Non era semplicemente un uomo. Lei era più del suo genere, più delle sue sofferenze. Era un’artista brillante e straordinaria e non vedremo più nessuno di così straordinario. Questa è la potenza di Artemisia Gentileschi.

Fonte: Leggendaria Novembre 2018


30/11/2018

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