LA STORICA «Il mio metodo: 90% di fatti 10% di fantasia»


di Matteo Sacchi

L'INTERVISTA
Barbara Frale «La letteratura è una via d'uscita dai vicoli ciechi della storia»
La studiosa specialista dei Templari spiega il passaggio dalla saggistica alla narrativa

Barbara Frale (classe 1970) è una storica e archivista nota, soprattutto, per i suoi studi sui templari come I Templari e la Sindone di Cristo (il Mulino, 2009) o La leggenda nera dei Templari (Laterza, 2016). Ora però ha deciso di dedicarsi anche al romanzo storico. Sarà a breve in libreria il suo I sotterranei di Notre-Dame (Newton Compton). Il romanzo è ambientato nell'epoca più studiata dalla Frale, quella di Filippo il Bello, re di Francia, e di papa Bonifacio VIII.

Professoressa Frale, perché una storica si dedica al romanzo?

«Come tutti gli storici, mi trovo spesso a fare un lavoro che somiglia a quello del detective. Per scrivere i saggi bisogna attenersi soltanto ai documenti, alle prove certe. A tutti gli storici capita di arrivare in un vicolo cieco, magari "sentono" che una vicenda è andata in un certo modo, ma la prova non c'è. Il romanzo invece lascia liberi. Un buon romanzo storico deve basarsi soprattutto sui fatti, ma consente quel salto interpretativo. E per lo storico è liberatorio».

Sono molti gli "accademici", da Umberto Eco all'archeologo Marcello Simoni, passando per Valerio Massimo Manfredi e Alessandro Barbero, che si sono dedicati al romanzo... Pensa che le loro motivazioni siano le stesse?

«Lei mi sta citando dei mostri sacri, bisognerebbe chiederlo a loro. Però penso essenzialmente di sì. Ad esempio mi diceva Franco Cardini, altro storico scrittore di romanzi, che la tentazione di andare oltre la fonte e di romanzare era fortissima anche per lui. Quindi essenzialmente penso di sì».

Quali sono le caratteristiche di un buon romanzo storico?

«L'elemento più importante è l'aderenza alla realtà. Essendo un romanzo, deve divertire, ma la cornice, il modo di pensare dei personaggi, i dettagli devono essere il più possibile vicini a ciò che ci dicono i documenti. Io uso un 90 per cento di fatti reali tratti dai documenti e soltanto un 10 per cento di fantasia, soprattutto per i dialoghi. Nel mondo anglosassone mi sembra che gli scrittori si prendano un po' più di libertà con la Storia. Non fa per me».

Come fa a trovare l'equilibrio fra personaggi reali e immaginari?

«Io di personaggi immaginari non ne uso, praticamente. Si cita il cuoco di Bonifacio VIII? Sono andata a controllare nei registri il nome del vero capocuoco. E anche quando ho dovuto inventare ho cercato di essere aderente ai testi. C'è una nipote di Bonifacio VIII, nominata nel romanzo. I documenti, purtroppo, non ci dicono il suo nome, ho utilizzato per lei uno dei nomi più diffusi nella famiglia Caetani. Non è vero, ma è plausibile».

Parlando invece di saggi... in essi è obbligatoria l'aderenza alle fonti. Ma poi sulle interpretazioni si litiga lo stesso...

«Il saggio è più come un verbale di polizia. I fatti sono quelli e soltanto quelli. Poi, come in un tribunale, arrivano le interpretazioni».

A volte però è proprio la fonte originaria a essere di parte...

«Certo, spesso il cronista dell'epoca scrive per qualcuno e contro qualcun altro. E anche i documenti possono essere fraudolenti sin dall'origine. È la conoscenza complessiva del periodo che aiuta lo storico a bilanciare il peso di ciò che sta leggendo».

Il suo romanzo è centrato sulla rivalità tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII. Due personaggi che sono stati sia esaltati che vituperati. Quale opinione ha di loro?

«Furono due giganti. Entrambi ritenevano di aver ricevuto un altissimo compito da Dio e hanno cercato di portarlo a termine. E questo li ha messi inevitabilmente in conflitto. Filippo era ascetico, ma doveva salvare una Francia a rischio default economico. Bonifacio aveva un'altissima idea del papato, sin da prima della sua elezione, ma non era in grado di governare la sua enorme e ambiziosa famiglia. Lo scontro fu cruento e inevitabile...».

Filippo è famoso proprio per aver risolto i suoi problemi economici a danno dei Templari...

«Fra i Templari c'era un pugno di eroi idealisti, come anche il gran maestro Jacques de Molay, ma la maggior parte dei Templari di Francia era composta da ricchi banchieri pettinati alla moda. Quando negarono un prestito a Filippo, il re, con un Paese sull'orlo della bancarotta, si orientò per la linea dura, ma lo fece scegliendo tra duemila ricchi cavalieri e il destino di una nazione e di una dinastia».

Ma le accuse di eresia? Il Bafometto?

«Senza mordente. I Templari adoravano una qualche reliquia, forse la Sindone, ma non si può esserne siculi, non certo qualche idolo. Le accuse nacquero in Linguadoca sotto le torture degli inquisitori. Non sono credibili».

Fonte: Il Giornale 31/12/2017

 


31/12/2017

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