Pino, il 91enne reso eroe da un libro: «Nel ‘43 salvava gli ebrei»


Novara, il romanzo scritto da un americano diventerà anche un film

di Elisabetta Rosaspina

«Avevo 17 anni e portavo la svastica su questo braccio — Pino Lella, 91 anni, indica la sua spalla sinistra — solo per salvare e aiutare persone in pericolo». Ha uno sguardo diritto, sincero. Ma ancora sorpreso, per essere definito «un eroe dimenticato», per essere diventato il protagonista di un romanzo, scritto dall’autore americano di thriller, Mark Sullivan, che in pochi mesi ha venduto 250 mila e-book, scaricati su Kindle; che, a maggio, è diventato un libro di carta, Beneath a scarlet sky, Sotto un cielo scarlatto (in autunno uscirà in Italia per Newton Compton), e che presto sarà un film prodotto a Hollywood dalla Pascal Pictures e interpretato da Tom Holland, 21 anni, la star britannica dell’ultimo Spider-Man. Ma arrivando a Lesa, grazioso paese di duemila abitanti, sul lago Maggiore, a pochi chilometri da Arona, si scopre che Pino Lella è riuscito a mantenere l’anonimato e il silenzio sul suo ruolo di spia e patriota per più di mezzo secolo: «Pino Lella? Sì, certo, lo vediamo sempre passare in bicicletta sotto i portici. Al pomeriggio lo può trovare di solito al Circolo Lesiano, sulla piazzetta qui dietro. Perché?» non sanno nulla delle sue avventure di guerra al bar di fronte alla pro loco.

Nel paese

Giuseppe Lella? In municipio non lo conoscono. Tantomeno sono al corrente della sua fama, esplosa Oltreoceano. Ne sanno molto di più i lettori del Times di Londra che ieri gli ha dedicato una pagina intera chiamandolo «il bimbo eroe del tempo di guerra». Era il ragazzo che, a 17 anni, «rischiava la vita per aiutare gli ebrei a fuggire dall’Italia di Mussolini, prima di spiare i nazisti, lavorando come autista di un generale tedesco». Lui è evasivo: «Sa, io sono nato a Bari, nel 1926, ma poi la mia famiglia si è trasferita a Milano, prima della guerra, e aveva un negozio di borse molto conosciuto, poi diventato “Lella Sport”. Da ragazzo fui mandato da don Luigi Re, alla Casa Alpina di Motta. Quel prete meriterebbe di essere fatto santo almeno quanto don Bosco, invece non è stato nemmeno beatificato». Quel prete, a Campodolcino (Sondrio), ospitava e nascondeva ragazzi e adulti, quasi tutti ebrei che, attraverso sentieri di montagna, dovevano essere portati al sicuro in Svizzera: uno di quegli «spalloni» umanitari era il giovanissimo Pino. «Sciare mi è sempre piaciuto. Ero l’accompagnatore della squadra italiana di sci negli anni ‘50». La nazionale femminile che vinse il campionato mondiale di Aspen, in Colorado. «Quando siamo arrivati in America, appena messo piede giù dall’aereo, sa chi ho incontrato? Mike Bongiorno. Questa non l’ho ancora raccontata a nessuno» divaga con un sorriso.

Il libro

Anche Mark Sullivan ha dovuto faticare parecchio per farsi confidare la storia più misteriosa, quella della sua doppia vita, al servizio dei nazisti e degli americani: «Ho conosciuto Mark attraverso un amico americano, Bob Dehlendorf — dice Pino Lella —. Sa, io poi ho vissuto molti anni negli Stati Uniti». Sì, poi. Sei o sette anni dopo quel 1943, in cui era entrato a far parte, cooptato dallo zio Mimmo, di una rete clandestina che aiutava le famiglie ebree a espatriare per evitare che fossero catturate e deportate. Nel 1944, a 18 anni, arruolatosi o forse, meglio, infiltratosi tra i nazisti, era riuscito a diventare l’autista personale del generale Hans Leyers, secondo la ricostruzione di Sullivan, che ha affascinato un quarto di milione di fans di storie di spionaggio. L’ufficiale probabilmente stava già trattando segretamente la resa, perché Pino ricorda di averlo accompagnato più volte a misteriosi incontri in Svizzera. In ogni caso, Leyers, uomo chiave del Terzo Reich in Italia, si occupava dell’Organizzazione Todt, l’impresa di costruzioni della Wermacht, consentendo al giovane chauffeur di inviare alla Resistenza informazioni sui fortini militari e sulle fabbriche di armi. L’Office Strategic Service chiese a Pino di collaborare all’arresto del generale Leyers e, infine, di condurlo in Svizzera, perché fosse consegnato vivo e vegeto agli americani. Ma indossare la divisa degli occupanti, con quella svastica sul braccio era stata una sofferenza, perché riteneva lo facesse apparire un codardo o un traditore, agli occhi del prossimo: «Per me era come una segnalazione, un salvacondotto per chi era in pericolo».

Fonte: corriere.it 29/08/2017


29/08/2017

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