Quando Tria evitava il capo dei grillini "Parla di cose che non si possono fare"


Il titolare del tesoro voleva dimettersi: "Ci ha provato due volte e il presidente della Repubblica lo ha fermato"

di Alan Friedman

L’ufficio del ministro del Tesoro in via xx Settembre è spazioso e decisamente formale, se non addirittura severo, con le sue pesanti tende di broccato e la celebre scrivania di Quintino Sella. Era qui che Giovanni Tria sedeva meditabondo, a mandar giù in silenzio la sua frustrazione. A parte qualche occasionale scoppio d’ira: di tanto in tanto diventava nervoso, molto nervoso. Persino esasperato. Come quando gli dicevano che Luigi Di Maio aveva appena varcato il portone del ministero.
«Ho un certo terrore di lui, di Di Maio», ha confessato Tria a un amico un giorno nella primavera del 2019, abbassando la voce mentre chiudeva la porta. «Parla di cose insensate. Mi chiede di fare cose che io non posso fare!», si è sfogato l’inquilino del mef.
«Ha cercato di dimettersi in almeno due distinte occasioni», racconta l’interlocutore del ministro, «ma il presidente della Repubblica ha detto di no». E così è rimasto lì, il punching ball preferito di Di Maio e Salvini, il terminale delle loro pressanti brame in materia di finanza pubblica. Ma, tra i due, era il vicepremier grillino quello che temeva di più. O almeno così è stato fino alle elezioni di maggio.
«Talvolta, se sente dire che Di Maio sta arrivando al ministero, cerca di nascondersi o di non farsi trovare in ufficio», ricorda l’amico di Tria con una piccola risata, aggiungendo che il ministro ha confidato il proprio scoramento a più di un visitatore, lamentandosi di quanto fosse difficile lavorare in quelle condizioni. Come se non bastasse, dopo la cospicua vittoria ottenuta alle europee, Salvini aveva iniziato a picchiare ancora più duro, terrorizzando il piccolo professore di economia che ormai scompariva dietro l’imponente scrivania di Quintino Sella. Povero Tria! Una vitaccia.
Non c’è quindi da sorprendersi che il Quirinale abbia dovuto dissuaderlo almeno due volte dal rassegnare le dimissioni. Perché una notizia del genere avrebbe di certo spaventato gli investitori internazionali, e sia Salvini sia Di Maio lo sapevano bene. Non che questo avesse impedito ai due viceministri, da bravi demagoghi populisti, di cercare in tutti i modi di affibbiargli la colpa quando i conti non tornavano. Cioè, o a lui o alla Commissione europea. Tanto che cambiava?
Di sicuro lo sventurato Tria si sentiva come a bordo del Titanic, mentre il transatlantico correva dritto contro l’iceberg. Tuttavia, nonostante talvolta sembrasse un po’ disorientato, se non addirittura in preda alla nausea, il ministro non era un passeggero qualsiasi che se ne andava oziosamente in giro per il ponte: in teoria, era lui che doveva tenere ben saldo il timone (dei conti pubblici). Ma quando Di Maio o Salvini decidevano di raggiungerlo nella cabina di comando, la situazione si faceva piuttosto caotica, come se due o tre persone volessero manovrare il timone contemporaneamente. Mentre i tre cercavano di dare ognuno la propria direzione, la barca smarriva la rotta e veniva sballottata qua e là dalle onde del burrascoso oceano. E nel tumulto generale, l’iceberg se ne stava implacabile all’orizzonte, sempre più vicino, sempre più vicino. L’impatto pareva quasi inevitabile.
Queste erano le condizioni in cui versava l’economia, con il capitano Giovanni Tria al timone della nave Italia. Un capitano di nome ma non sempre di fatto, pieno di lividi a furia di prendere botte dai membri dell’equipaggio, e che ogni volta che scorgeva Di Maio o Salvini correva a nascondersi – se non nella cabina di comando, di sicuro in qualche ufficio dalle parti di via xx Settembre.
Non c’era da stupirsi che talvolta Tria avesse la faccia di uno in preda al mal di mare.
Ma le cose non dovevano per forza andare in questo modo. La nave avrebbe potuto salvarsi.
Certo, se l’economia italiana si trovava in una fase di stagnazione e vulnerabilità, in parte la colpa era dovuta anche al rallentamento dell’economia globale, soprattutto sotto la pressione delle aggressive guerre commerciali di Donald Trump. Ma c’era anche un’altra ragione che spiegava la folle corsa verso l’iceberg della nave Italia: l’errore umano. Nel caso specifico, l’adozione di politiche economiche errate e mal progettate, che non si sono dimostrate capaci di stimolare neanche un briciolo né la crescita né l’aumento dell’occupazione.

Fonte: La Stampa 03/09/2019

 


03/09/2019

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