Sembrava una patria. Era il KGB


Erano cittadini dell'Occidente, figli dell'Occidente. Eppure un credo politico diverso li portò a tradire, a passare dall'altra parte: prima lavorando per l'Unione Sovietica in segreto; quindi scappando a Mosca. Spie. Costituirono una comunità separata dal mondo che li circondava: eroi, sì, ma da trattare con cautela. Avevano scelto la fedeltà a un'ideologia e soprattutto allo Stato nello Stato che per quell'ideologia era nato. Pagarono un prezzo molto alto. Due volte: qui e là, in Urss.

Di Joseph Kanon

La spia è il secondo mestiere più antico del mondo, ma i servizi segreti che forniscono ispirazione ai romanzi spionistici e alle nostre sporadiche paranoie – cioè gli uffici governativi dotati di immense risorse tecnologiche – sono un fenomeno moderno. Fino alla seconda guerra mondiale negli Stati Uniti non c’era un unico servizio di intelligence e l’Esercito e la Marina avevano ognuno un proprio dipartimento, concentrato principalmente nella decriptazione di codici e messaggi cifrati. La CIA venne infatti fondata nel 1947. Le agenzie europee furono formate prima, ma erano relativamente piccole e facevano affidamento sulle spie tradizionali, quegli uomini in trench che qualsiasi lettore di storie di spionaggio precedenti al conflitto mondiale conosce bene. Alcuni di questi dipartimenti sarebbero diventati leggenda, almeno nell’immaginario popolare, per esempio l’MI6 inglese e il Mossad israeliano, ma nessuno di essi è mai stato potente come il KGB. Qualsiasi siano le iniziali usate per identificarli (NKVD, KGB, FSB), i servizi segreti russi hanno sempre operato come uno stato nello stato: sono stati strumento della politica governativa (e spesso anche del terrore governativo), una forza d’élite che si è nutrita della sua stessa mitologia. Nel suo periodo d’oro, gli anni Trenta e Quaranta, il KGB riuscì a infiltrarsi nei governi occidentali con una pervasività senza precedenti, grazie al reclutamento di agenti  anch’essi occidentali ma di fede comunista. Durante la Guerra Fredda, i servizi segreti di entrambi i versanti della Cortina di ferro operarono come truppe di terra e le spie divennero praticamente dei soldati. Poi, nel 1991, l’Unione Sovietica è collassata e ha smesso di essere una superpotenza. La Guerra Fredda era finita. 
O almeno così abbiamo pensato. Come adesso tutti sanno, la Russia sta creando problemi ovunque: si immischia nelle elezioni degli altri Paesi, hackera sistemi informatici, si serve delle donne in pieno stile Guerra Fredda, facendone delle “trappole di miele”. Si dice persino che degli ex agenti siano stati assassinati con il gas nervino, un colpo di scena così antico e abusato che qualsiasi romanziere ci penserebbe due volte prima di ricorrervi. La Guerra Fredda, in breve, è tornata in grande spolvero. Tuttavia il mondo è andato avanti, e le ha dato una forma diversa. Non viviamo più in un’epoca di scontro ideologico e i modelli economici non combattono più per primeggiare (chi considera ormai la Russia come un esempio da seguire?). Le armi in gioco sono quelle della cibernetica. Anche gli obiettivi stessi della guerra sono indefiniti e confusi. Destabilizzare l’Occidente e insinuare il dubbio sulle sue istituzioni? Distogliere l’attenzione da un’economia destinata al disastro promuovendo il sogno di un impero da riconquistare? O solo avanzare impettiti sul palcoscenico del mondo ed essere presi di nuovo sul serio? Che cosa significa esattamente “vincere” in questa nuova versione di un vecchio conflitto?
Nel 1961, anno in cui è ambientato Omicidio a Mosca, la Guerra Fredda era al culmine e il KGB giocava la sua partita più importante. Volevo scrivere delle spie comuniste inglesi e americane che, una volta smascherate, sono fuggite a Mosca. Dopo aver scarificato tutto per la fede comunista, che cosa hanno trovato nel Paese che l’ha vista nascere? Com’era per loro la vita in Russia? Nel 1961 i rifugiati politici potevano ancora credere di essere dal lato giusto della storia. Il prestigio internazionale dell’Unione Sovietica era alto e il lungo e sclerotico declino e collasso non era ancora nemmeno all’orizzonte. Mosca era cupa e povera, ma il peggio del terrore staliniano era passato e il tenore di vita stava (lentamente) migliorando. Eppure i rifugiati politici avevano la disturbante sensazione di essere fuggiti da una prigione per finire in un’altra. Erano stati accolti come eroi, ricompensati con appartamenti e privilegi, però venivano tenuti sotto sorveglianza. In quanto stranieri, nessuno si fidava veramente di loro né affidava loro compiti di un qualche valore. Alcuni si diedero all’alcol e morirono precocemente. Evitati dai russi, ricominciarono a frequentarsi tra loro, una perversa forma di vita da espatriati senza biglietto di ritorno. 
Tuttavia, nonostante cominciassero a nutrire sentimenti contrastanti nei confronti della Russia, o persino del comunismo stesso, costoro rimasero sempre fedeli al loro vero padrone, il KGB. Il Paese poteva anche andare allo sfascio, ma i servizi segreti russi rimanevano ai loro occhi l’agenzia d’élite della quale erano entrati a far parte quando vivevano in Occidente. A Mosca i suoi membri conducevano una vita distinta: avevano i loro negozi di alimentari, i loro ospedali, le loro dacie in cui trascorrere il weekend. Il KGB aveva difeso benissimo il proprio territorio, rendendo difficile per gli occidentali reclutare agenti in Russia, e a Mosca quindi non si assisteva spesso agli intrighi spionistici che invece avevano luogo, per esempio, a Berlino. Per i fuoriusciti, il KGB divenne l’unica istituzione il cui successo sembrava giustificare il loro tradimento. Kim Philby, alla disperata ricerca di una posizione di maggior rilievo a Mosca, finse di avere il grado di ufficiale del KGB che in realtà non gli era mai stato attribuito. 
La Mosca del 1961 era molto diversa dalla Mosca di oggi, una città con poche macchine, come avvolta da una patina grigia. Non c’erano bar sulle terrazze con vista Cremlino né oligarchi con le guardie del corpo in attesa nelle lobby degli hotel. Ma di sicuro c’era il KGB, che tutto guardava, a tal punto parte integrante della vita russa che sembrava iscritto nel DNA nazionale. Erano questi i “servizi” che i rifugiati politici ammiravano, e riverivano. Nessuno di loro fu mai pagato per il tradimento. Le opinioni politiche erano una questione di fede, e il KGB l’officiante della religione comunista. Dove potrebbero mai trovare oggi i servizi segreti degli accoliti così devoti? Ma forse nemmeno li stanno cercando. Se basta un tweet o un account Facebook per infiltrarsi, perché passare attraverso il complesso processo di formare un agente? Anzi, per destabilizzare così il proprio avversario (il KGB se parliamo dal punto di vista degli Stati Uniti), si potrebbe anche ricorrere a un “utile idiota” che faccia il lavoro sporco al posto nostro. 
La Russia sta ancora una volta facendo la guerra all’Occidente, puntellando un’economia fatiscente con revanscisti sogni di gloria. Ma quella gloria ormai è acqua passata. Secondo quasi tutti gli indicatori del benessere di una popolazione, il Paese è in serio declino. Eccetto, come sempre, nel campo dei servizi segreti, impegnati a tessere le loro trame di intrighi, nel tentativo di rendere di nuovo la Russia un Paese potente. Ma i rifugiati politici di Omicidio a Mosca sarebbero ancora disposti ad arruolarsi nelle loro file? Si considererebbero orgogliosi membri di un’élite? Il KGB del 1961 forniva i gruppi d’assalto di un sistema che credeva in se stesso, che addirittura riusciva a convincere degli stranieri a credere nei propri valori. Non si trattava di difendere un Paese, ma un’ideologia, un’ideologia abbastanza salda da guadagnarsi la fedeltà dei rifugiati politici. Ma era la prima Guerra Fredda quella in cui si lottava in nome di un’ideologia, non questa qui. 

TRADUZIONE DI CLARA SERRETTA

Come Kim Philby, ma senza nome... Uno scrittore decide di ambientare un romanzo in piena Guerra fredda, nel 1961, cercando di penetrare nel gruppo più particolare fra quelli degli espatriati in Russia. Sono persone la cui sorte è legata al Kgb, i cui membri conducevano un'esistenza parallela. Il dietro le quinte del suo lavoro, le atmosfere, le immagini, le figure incontrate o immaginate sono a loro volta una storia che ci parla del presente

L'autore Joseph Kanon è nato in Pennsylvania, Stati Uniti, nel 1946, ma oggi vive a New York con la moglie Robin Straus, agente letterario, e coni due figli. Fin da ragazzo, durante gli studi al Trinity College e ad Harvard, ha iniziato a pubblicare racconti su «The Atlantic Monthly»; dopo la laurea ha lavorato a lungo nel campo dell'editoria prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Con il primo romanzo Los Alamos (1997) ottenne il Premio Edgar per la migliore opera prima. I suoi romanzi, thriller di spionaggio, sono ambientati in genere negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, con intrecci che si svolgono spesso a margine ai importanti eventi storici, come ad esempio la Conferenza di Potsdam del 1945, in cui gli Alleati vincitori decisero il destino della Germania postbellica Bibliografia Di Kanon, in Italia, Newton Compton ha pubblicato Omicidio a Istanbul (2014), in cui l'agente Leon Bauer è coinvolto in un delitto mentre conclude l'ultima missione; Omicidio a Berlino (2017) su un giovane scrittore ebreo che deve diventare una spia della Cia; e il nuovo Omicidio a Mosca. Dal romanzo The Good German, è stato tratto il film Intrigo a Berlino di Steven Soderbergh, con George Clooney e Cate Blanchett (2006) 

Fonte: La Lettura 09/09/2018

 


09/09/2018

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